# di Natalia Coppolino*

 “Tutto chiede salvezza” è una nuova serie tv diffusa sulla piattaforma digitale Netflix, riadattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Daniele Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020, in cui viene narrata la storia di Daniele appunto, un giovane di vent’anni che nell’estate del 1994 viene sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio per aver aggredito i genitori durante un eccesso di rabbia, amplificato dall’uso di alcool e sostanze stupefacenti.

Daniele si sveglia in un letto del reparto di psichiatria di una clinica romana ed inizia a fare la conoscenza dei suoi compagni di stanza con i quali dopo il primo impatto traumatico condividerà spazi, paure e speranze per una settimana.

Questa serie tv ha aperto uno scorcio per riflettere sui temi legati ai manicomi giudiziari, dalle loro origini al processo di trasformazione che ha portato all’istituzione delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza.

Il primo manicomio criminale italiano è stato istituito nel 1884 presso il Carcere di Aversa, a norma dell’articolo 469 del Regio Decreto 260/1891, noto per essere il primo Regolamento Penitenziario Italiano, il quale recitava “i condannati che devono scontare una pena maggiore di un anno, colpiti da alienazione mentale, sono destinati speciali stabilimenti, o manicomi giudiziari, nei quali si  provveda  ad  un  tempo alla repressione e alla cura”.

Successivamente la legge 14 febbraio 1904, n. 36 all’articolo 1 affermava “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi. Sono compresi sotto questa denominazione,  agli  effetti della presente legge, tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere”.

Con l’entrata in vigore del Regio Decreto 787/1931 il manicomio giudiziario diventa il luogo presso il quale eseguire la misura cautelare per i malati di mente, socialmente pericolosi autori di reato.

Con la riforma dell’ordinamento penitenziario, legge 354/75, il manicomio giudiziario viene rinominato Ospedale Psichiatrico Giudiziario, ponendo l’enfasi così sul percorso di cura del soggetto autore di reato affetto da patologie mentali, con percorsi rivolti alla rieducazione ed al reinserimento nel contesto sociale.

La riforma 180/78 pone ulteriore attenzione proprio sul percorso terapeutico del paziente, piuttosto che sulla dimensione controllo/neutralizzazione. La cosiddetta legge Basaglia impediva nuovi ricoveri negli ospedali psichiatrici e prevedeva la chiusura graduale dei manicomi esistenti ma non degli OPG, Ospedali Psichiatrici Giudiziari, che sotto la giurisdizione dell’Amministrazione Penitenziaria accoglievano i soggetti autori di reato affetti da patologie mentali, socialmente pericolosi con lo scopo di curarli e preservare la sicurezza sociale. Questo ha portato allo sviluppo di un diverso regime di cura per soggetti affetti da patologie mentali autori di reato e non autori di reato.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 253/03 dichiarava illegittimo costituzionalmente obbligare il prosciolto per vizio totale di mente, ritenuto socialmente pericoloso, ad essere ricoverato in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario laddove si fosse invece potuto adottare una misura di sicurezza alternativa. Questa sentenza proponeva di sostituire al ricovero in OPG un percorso terapeutico territoriale personalizzato da includere nella misura di sicurezza della libertà vigilata.

Il DPCM 1 aprile 2008 riordinando la medicina penitenziaria affidanda le funzioni sanitarie alle regioni, il territorio diventa così il luogo più adatto per prendersi cura delle persone con problemi mentali. Nel DPCM si presentava un programma di superamento degli OPG articolato in 3 fasi: in un primo momento le regioni dovevano assumere la responsabilità della gestione sanitaria degli OPG ubicati nel loro territorio di pertinenza, contestualmente i dipartimenti di salute mentale avrebbero dovuto redigere programmi operativi per il percorso di cura delle varie tipologie di internati; nella seconda fase, ad un anno di distanza dalla prima, si sarebbe proceduto alla redistribuzione degli internati fra gli OPG per iniziare ad avvicinare i soggetti all’area geografica di provenienza; nella terza ed ultima fase, dopo due anni, si sarebbe conclusa la restituzione ad ogni regione della quota di internati provenienti dai territori presi in carico.

La legge 9/2012 aveva previsto come data di chiusura degli OPG il primo febbraio 2013, tuttavia furono riscontrate difficoltà di ordine strutturale, tecnologico ed organizzativo che non permisero alle regioni di realizzare per tempo le nuove strutture entro cui accogliere i soggetti cui applicare le misure di sicurezza.

Pertanto, con il decreto legge 24/2013 si è posticipata la chiusura degli OPG al primo aprile 2014, ulteriormente posticipata al 31 marzo 2015 con la legge 81/2014 così da consentire alle regioni e province autonome di completare tutte le misure e gli interventi strutturali già programmati, finalizzati ad assicurare l’assistenza terapeutico-riabilitativa per il recupero e il reinserimento sociale dei pazienti internati provenienti dagli ospedali psichiatrici giudiziari.

Viene dunque decretata la chiusura definitiva anche dei 6 Ospedali Psichiatrici Giudiziari distribuiti sul territorio nazionale: Castiglione delle Stiviere (per l’area Lombardia, Piemonte, Val d’Aosta, Liguria); Reggio Emilia (per l’area Veneto, Trentino-Alto Adige, Friuli Venezia Giulia, Marche, Emilia-Romagna); Montelupo Fiorentino (per l’area Toscana, Umbria, Lazio, Sardegna); Aversa e Napoli (per l’area Campania, Abruzzo, Molise, Basilicata, Puglia); Barcellona Pozzo di Gotto (per l’area Sicilia, Calabria).

Questa legge ha messo in primo piano l’intervento territoriale, come sede primaria per la cura e riabilitazione di soggetti malati di mente autori di reato tramite l’inserimento nelle REMS, Residenze Esecuzione Misura di Sicurezza. Le REMS sono qui viste come residenze momentanee, il cui obiettivo è quello di aiutare il soggetto a superare la pericolosità così da poter essere re-inserito all’interno del consorzio sociale. I soggetti non più socialmente pericolosi dovevano essere seguiti dai dipartimenti di salute mentale o presso strutture riabilitative o grazie al supporto di professionisti presso il loro domicilio.

Il soggiorno presso le REMS è una misura transitoria, tanto che la permanenza non può essere superiore alla durata del massimo della pena edittale prevista per il reato commesso. Il dipartimento di salute mentale, territorialmente competente, deve predisporre in tempi consoni un progetto terapeutico-riabilitativo individualizzato che porti al reinserimento del soggetto in società.

Le REMS non sono sostituti degli OPG ma strutture facenti parte di un sistema più complesso di cura e riabilitazione di pazienti psichiatrici autori di reato che coinvolge i servizi sanitari e sociali ed in ultima istanza la comunità di riferimento del soggetto nella sua totalità. Bisogna infatti ricordare che questa norma vede il soggetto affetto da patologie mentali come portatore di diritti, doveri e garanzie. 

Lungi dal voler esprime alcun giudizio sul percorso tortuoso che ha portato alla nascita delle REMS, il trattamento di persone affette da patologie mentali nel nostro paese rimane un argomento problematico e purtroppo le pagine dei giornali e i talk televisivi spesso narrano fatti di cronaca nera afferenti questa specifica tematica. Ne è un esempio il caso di Alice Scagni, giovane donna ligure, uccisa a coltellate dal fratello Alberto, a pochi passi dalla casa in cui viveva con il marito e il figlio. L’uomo aveva già incendiato la porta di casa della nonna e si era poi diretto dalla sorella per chiedere insistentemente del denaro, da anni disoccupato non riceveva più sostegno economico dai familiari.

L’uomo soffriva di manie di persecuzione, era convinto di essere spiato e faceva uso di sostanze stupefacenti ed alcool, aveva scritto post violenti e minatori sui social, minacciato verbalmente i genitori che prontamente avevano richiesto l’intervento dei carabinieri per 5 volte ed un sostegno psichiatrico per il figlio. I genitori si stanno battendo per far avviare un procedimento per morte come conseguenza di altro reato e individuare le responsabilità di chi poteva evitare il delitto disponendo un Trattamento Sanitario Obbligatorio.

Con questo breve excursus si è cercato di evidenziare una criticità delle nostre società non ancora superata, in cui è imprescindibile una collaborazione effettiva, pronta e sistematica tra gli operatori delle forze dell’ordine, del sistema sanitario e giudiziario coadiuvati dagli specialisti della sicurezza, così da non abbandonare i soggetti affetti da patologie mentali e le loro famiglie allo stigma e alla solitudine da esso derivata relegandole ai margini ma mantenendoli all’interno del consorzio sociale, che dovrà sforzarsi di assistere, curare, socializzare e, laddove possibile reinserire ogni membro della comunità.

  

Riferimenti

  • Balloni, Alberto, Roberta Bisi, e Raffaella Sette. Principi di criminologia applicata: criminalità, controllo, sicurezza. Vol. II. Trento: Wolters Kluwer. 2015
  • Fanpage. https://www.fanpage.it/story/news-sullomicidio-di-alice-scagni-a-genova/.
  • Mencarelli, Daniele. Tutto chiede salvezza. Milanno: Mondadori. 2020

Dello stesso autore:

https://criminologiaicis.it/tecniche-di-sicurezza-urbana-contemporanea/

 

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L’AUTORE

Natalia Coppolino, è Criminologa qualificata AICIS e coordinatrice dell’Osservatorio di Sicurezza Urbana. Si occupa principalmente dello studio delle politiche di sicurezza urbana e ha collaborato alla stesura del documento delle buone pratiche di sicurezza urbana per il Comune di Forlì. Attualmente collabora come tutor didattico presso l’Università di Bologna.

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