(AICIS) A dare l’input all’indagine è stato un servizio della tv privata El Hiwar Ettounsi sull’arrivo in Tunisia dall’Italia di 70 container con 120 tonnellate di rifiuti considerati non a norma e senza le necessarie autorizzazioni, e altre 200 tonnellate di rifiuti dello stesso tipo, in attesa di essere smistati nel porto di Sousse in Tunisia.
Ora 23 persone dovranno vedersela con la Procura di Sousse con accuse che vanno dall’uso di documenti falsi” alla “partecipazione all’importazione vietata di rifiuti pericolosi” importati illegalmente dall’Italia. Tra gli indagati anche l’ex ministro dell’Ambiente e alti funzionari doganali.
In realtà l’importazione sarebbe stata autorizzata per “scarti plastici per il riciclaggio industriale”, mentre sarebbero stati riempiti con rifiuti domestici solidi urbani e pericolosi, di cui è vietata l’importazione dalla legge tunisina.
Sotto i riflettori il fenomeno del commercio globale di rifiuti, cresciuto nonostante le normative internazionali più severe volte a impedire ai paesi ricchi di scaricare i loro rifiuti pericolosi nei paesi più poveri.
I contenitori sequestrati dalle Autorità tunisine sono stati importati in due spedizioni dalla società tunisina Soreplast, autorizzata dal governo locale per l’importazione e riciclo scarti di plastiche industriali.
Secondo la Procura si Sousse, il contratto di Soreplast, con l’azienda italiana, che raccoglie e tratta i rifiuti nella regione Campania, visionato dall’Afp, prevedeva che Soreplast avrebbe smaltito fino a 120.000 tonnellate di rifiuti a 48 euro per tonnellata, per un totale di oltre cinque milioni di euro. L’8 luglio, però, i funzionari tunisini hanno deciso di sequestrare i container e rispedirli in Italia.
Il fenomeno criminale: L’analisi dei flussi relativi al commercio internazionale condotta istituzionalmente dall’Agenzia delle dogane e dei monopoli, con specifico riguardo alle categorie merceologiche che comprendono i rifiuti, compresi quelli industriali considerati cascami ed avanzi di lavorazione, ha consentito alla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo di rifiuti, istituita con legge 7 gennaio 2014, n. 1, di individuare le connessioni con i processi di delocalizzazione industriale e produttiva sviluppati a livello globale a partire dalla fine del XX secolo. Milioni di tonnellate di carta da macero, di rottami di ferro, alluminio, rame, plastica, polietilene, cartone, divenuti rifiuti nei grandi mercati dell’occidente, Europa compresa, oggetto di procedure e legislazioni ambientali attente ai cicli di produzione e di riciclo, sono stati destinati in estremo oriente e nel continente africano per lo smaltimento o l’estrazione di materiali da riutilizzare per la produzione industriale, con prescrizioni normative e costi finanziari imparagonabili, per difetto, agli standard europei e del Nord-America. Il trasporto di milioni di tonnellate di rifiuti, di cascami ed avanzi a mezzo container o alla rinfusa, non poteva che avvenire, attesa la distanza di paesi quali la Repubblica Popolare Cinese, con il vettore navale, per la conseguente riduzione dei costi di trasporto e trattamento logistico. La catena logistica relativa al trasporto navale evidenzia, nel contesto in esame, l’importanza ed il ruolo strategico assunto dalle infrastrutture portuali, in Italia e all’estero, e conseguentemente dei dispositivi istituzionali attuati a livello nazionale ed estero per il monitoraggio, controllo e contrasto dei traffici illeciti di rifiuti. In tal senso, sono da ritenere basilari le osservazioni espresse dal direttore generale dell’Agenzia delle dogane, nelle audizioni davanti alla Commissione, con specifico riferimento ai flussi diretti in esportazione dall’Italia e dell’Europa verso l’estremo oriente e, in particolare, verso la Repubblica Popolare Cinese. I traffici di rifiuti illecitamente trattati o non sottoposti ai dovuti trattamenti previsti dalla normativa ambientale, diventati oggetto di movimentazioni transfrontaliere internazionali, sono in larga maggioranza riferibili a cascami ed avanzi di lavorazione di prodotti industriali, destinati in esportazione verso i circuiti industriali asiatici perché vengano riciclati, utilizzati quali materie secondarie e reintrodotti nel mercato dei prodotti finiti da essi derivate. Il quadro di riferimento fornito dall’amministrazione doganale è sostanzialmente confermato dalle audizioni rese dai responsabili delle capitanerie.
Analoghe considerazioni possono essere desunte dalle relazioni prospettate, relativamente alla importanza assunta dal trasporto navale nel settore, per la parte strettamente repressiva, dai rappresentanti delle altre forze di polizia. Ci si riferisce, in particolare, alle indicazioni espresse dal comando generale della Guardia di finanza in relazione ai sequestri di rifiuti diventati oggetto di spedizioni internazionali operati dai militari del corpo8 congiuntamente ai funzionari doganali, e ai carabinieri del Comando per la tutela dell’ambiente. Lo scenario di riferimento internazionale conferisce alle osservazioni condotte a livello nazionale una valenza di carattere generale, consentendo comparazioni tra dispositivi attuati nei vari Stati membri dell’Unione, anche sulla base dei citati sopralluoghi presso strutture portuali nazionali e di altri Paesi.
Il dispositivo di controllo nazionale, di prevenzione e repressione degli illeciti è essenzialmente fondato, per le movimentazioni transfrontaliere dei rifiuti, sul sistema di analisi dei rischi dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, la quale opera nei porti, aeroporti e valichi terrestri nazionali, in rapporto con le collaterali strutture estere doganali; in ambito portuale compiti specifici e una parificabile funzione di first responder è attribuita ai comandi delle capitanerie di porto. L’Agenzia, con le sue strutture centrali e territoriali, seleziona i carichi da sottoporre a verifica, documentale, fisica o radiogena a mezzo scanner, sulla base delle informazioni disponibili, graduandone il livello di rischio in considerazione di profili che elaborano criteri derivanti dalle dichiarazioni di importazione ed esportazione, della posizione soggettiva delle aziende, incrociandone le risultanze con elementi inerenti la pericolosità delle rotte, le caratteristiche di prodotti appartenenti a determinati settori merceologici, le operazioni tecniche previste per il corretto trattamento ambientale. Lo stesso dispositivo di prevenzione e contrasto realizzato dall’Agenzia delle dogane, applica modelli di intelligence doganale predisposti dalle strutture antifrode centrali.
Le ecomafie – “Ecomafia” è un neologismo coniato per la prima volta da Legambiente, associazione ambientalista, per ricomprendere tutte le attività illegali delle organizzazioni criminali di stampo mafioso che arrecano danni all’ambiente.
Tra le attività delle ecomafie svolge un ruolo centrale il traffico illegale e lo smaltimento illegale dei rifiuti, pericolosi e non. Nel 1982 con l’emanazione del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (“Attuazione delle direttive (CEE) n. 75/442 relativa ai rifiuti, n. 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e n. 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi”), è iniziata la prima raccolta di notizie sull’operato delle ecomafie.
I primi reati relativi allo smaltimento dei rifiuti sono stati accertati nel 1991: sei imprenditori ed amministratori vennero condannati dalla Settima Sezione del Tribunale di Napoli per abuso di ufficio e corruzione ma assolti dall’accusa di associazione mafiosa. Il termine ecomafia appare per la prima volta nel 1994 in un documento pubblicato dall’associazione italiana Legambiente, intitolato Le ecomafie – il ruolo della criminalità organizzata nell’illegalità ambientale, redatto in collaborazione con Eurispes e con l’Arma dei Carabinieri. Nel 1997 venne pubblicato il primo Rapporto Ecomafia di Legambiente che da allora, ogni anno, fa il punto sulla situazione.
Nel 1995 è stata istituita la “Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti”.
Dall’ultimo rapporto del 2019 è risultato che i settori prediletti dalle ecomafie riguardano il ciclo illegale del cemento e dei rifiuti, la filiera agroalimentare e il racket degli animali.
L’aggressione alle risorse ambientali del Paese si traduce in un giro d’affari che nel 2018 ha fruttato all’ecomafia ben 16,6 miliardi di euro, 2,5 in più rispetto all’anno precedente e che vede tra i protagonisti ben 368 clan, censiti da Legambiente e attivi in tutta Italia.
Nel 2018 è registrato un aumento degli illeciti legati al ciclo illegale dei rifiuti che si avvicinano alla soglia degli 8mila (quasi 22 al giorno) sia quelli del cemento selvaggio che nel 2018 registrano un’impennata toccando quota 6.578, con una crescita del +68% (contro i 3.908 reati del 2017).
AICIS