(Ugo Terracciano*) –  Spiegare le origini, l’evoluzione e le involuzioni nel tempo di Al-Quaeda, organizzazione fondamentalista di stampo terroristico, richiederebbe un discorso decisamente molto lungo. Nata dai campi di addestramento della guerriglia afgana (Al-Quaeda significa “la base”), l’organizzazione terroristica ha visto il suo punto di maggiore espansione nell’ISIS (il sedicente Stato Islamico), per poi polverizzarsi, alla fine, in migliaia di “cellule” dotate di un’ampia autonomia d’azione, dopo il fallimento del cosiddetto Califfato. Soggetti isolati o piccoli gruppi si attivano ora sullo scenario occidentale (e non solo) sulla scia di predicazioni inclini alla jihad (la “guerra santa del Corano, interpretata dai fanatici in senso troppo letterale).

Non c’è un rapporto gerarchico tra i capi della jihad e gli adepti, ma un rapporto di autorevolezza cieca. Più che un’organizzazione, quindi, quella del terrorismo islamista è un “contesto” dove i radicalizzati si confondono tra i fedeli. Così il confine tra la fede e l’odio religioso diventa evanescente. Ecco la difficoltà di prevenire il fenomeno: l’organizzazione da combattere non ha una struttura rigida, ma è fluida: si compone e scompone a seconda del momento storico e dell’ambiente. E’ flessibile: prima un gruppo organizzato per l’addestramento militare (la “base”), poi una struttura statale, l’ISIS, con tanto di esercito e mezzi bellici, infine una galassia di cellule dormienti, pronte a colpire quando il momento, non l’organizzazione, lo richiede.

La politica – Ovvio che sullo sfondo – magari senza una piena consapevolezza degli adepti radicalizzati, che pensano a finalità solo religiose – c’è uno spirito anti-occidentale che condiziona parte della politica internazionale araba e turca. Ma anche qui il discorso sarebbe molto lungo. Per intenderci basti pensare a quanto sta accadendo in Libia ed i riflessi sulla politica energetica e migratoria europea. Non va sottovalutato, poi, il fatto che tra i radicalizzati ci sono molti tunisini, una apparente contraddizione in un Paese laico nel quale, dopo la primavera araba, è fiorita una democrazia presto indebolita dall’impoverimento del Paese.

Immigrati radicalizzati e immigrati: – A proposito della relazione tra l’immigrazione incontrollata e l’infiltrazione di soggetti radicalizzati i fatti relativi agli ultimi attentati parlano da soli.  Era fine anno 2019 e fonti vicine ai servizi, segnalavano il pericolo di infiltrazioni terroristiche tra i profughi in arrivo via mare sulle coste della Sicilia. Poi a Natale l’allarme era stato rilanciato dal Ministero dell’Interno che invitava i prefetti a «essere sensibilizzare le forze di polizia sulla necessità di avere un atteggiamento vigile e reattivo, con una particolare attenzione per i luoghi di culto». Il Ministro degli Esteri, in visita lo scorso 23 dicembre 2019 al contingente italiano in Libano, lo aveva detto senza mezzi termini: «In Libia è in corso una proxy war, una guerra per procura, con un forte rischio per la presenza di cellule terroristiche». E aveva proseguito: «Lo schema è simile a quello della guerra nella vicina Siria. E in Libia la questione non è tanto il rischio dei profughi, ma quella legata al terrorismo, e al rischio di cellule terroristiche». Nell’agosto di quest’anno anche il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio aveva fatto sentire la sua voce: «Un’immigrazione pericolosa» aveva detto riferendosi agli sbarchi fantasma: «migliaia di persone, quasi tutte tunisine, in piena notte o all’alba sbarcano da barche in legno o piccoli pescherecci e fanno perdere le loro tracce. Ne hanno contati circa cinquemila di questi “nuovi” migranti, 2.100 sulle coste dell’Agrigentino, 2.800 su quelle dell’isola di Lampedusa e perfino nella piccola e isolatissima Linosa». Una premonizione o una consapevolezza di un pericolo ipotetico? La risposta è arrivata giorni fa vergata col sangue di tre vittime nell’ennesimo barbaro attentato in Francia messo a segno a Nizza proprio da un immigrato giunto al porto di Lampedusa in mezzo ai profughi portati in terra ferma grazie al sistema dei soccorsi in mare.

Una scia di sangue: – Il transito di terroristi che, entrati clandestinamente in Italia, si palesano successivamente con attentati in Europa non è una novità di oggi. Il 19 dicembre 2016, un attentato provocò 12 morti e 56 feriti tra gli avventori di un mercatino di Natale di Berlino. Un autoarticolato con targa polacca, proveniente dall’Italia, investì la folla. L’attentatore Anis Amri apparteneva alla rete salafita chiamata “La vera religione” cresciuta intorno a Abu Walaa, un noto reclutatore dell’ISIS in Germania arrestato dalla polizia tedesca. Giunto in Italia dopo l’attentato venne ucciso in uno scontro con la polizia. Secondo la sua famiglia, Amri era un alcolizzato, tossicodipendente e non religioso, ma era stato radicalizzato nelle carceri italiane. Anis Amiri, certamente era stato radicalizzato, ma altrettanto certamente si è mosso da solo: ne è prova il fatto che prima di agire aveva cercato – senza successo – di arruolare nuovi adepti.

L’ultimo attacco a Nizza: – L’aggressore – Brahim Aoussaouit – è arrivato in Italia il 20 settembre. Il 9 ottobre è sarebbe stato trasferito in un centro per migranti a Bari, dopo la quarantena obbligatoria per tutti coloro che sbarcano. Prima di raggiungere la Francia ha trascorso 15 giorni a Palermo, ospite da un parente e avrebbe lasciato l’Italia non prima del 25 ottobre.

Le vittime: – Mentre tentava di scappare è stata colpita più volte alla gola ma è riuscita comunque ad uscire dalla chiesa e ad attraversare la strada fino a una pizzeria che si trova lì davanti. Poi è morta dopo pochi minuti. Si chiamava Simone Barreto Silva, 44 anni, era madre di tre figli, faceva la badante, ma da poco aveva preso anche un diploma in pasticceria, sua grande passione. Viveva in Francia da 30 anni ed era cittadina francese, era nata a Bahia. «Dite ai miei figli che li amo», le ultime parole pronunciate dalla donna, ferita dall’attentatore tunisino più volte alla gola. E’ stata una vittima per caso nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, come le altre due persone uccise. L’uomo pugnalato a morte in chiesa si chiamava Vincent Loqués, 54 anni che della Cattedrale Notre Dame di Nizza era il guardiano da circa dieci anni. Padre di due figli. Nel quartiere lo conoscevano tutti per la devozione verso il suo lavoro e l’amore per la Cattedrale. Dopo aver ucciso il guardiano Loqués, l’assalitore si è accanito su una donna di 60 anni, e dopo averla pugnalata, ha tentato anche di decapitarla. Il corpo della donna è stato trovato all’ingresso della chiesa, vicino all’acquasantiera.

Ancora morte a Nizza: – Nizza è ripiombata nel terrore dopo quattro anni dall’attentato sul lungomare. La sera del 14 luglio 2016, verso le ore 22:30, una folla di persone stava assistendo sulla Promenade des Anglais, la passeggiata sul lungomare di Nizza, nell’occasione trasformata in isola pedonale, allo spettacolo pirotecnico allestito per le celebrazioni della festa nazionale francese. Improvvisamente un autocarro, un Renault Midlum di colore bianco, si scagliò ad alta velocità sulla folla, investendo centinaia di persone e provocando il panico. La corsa del veicolo proseguì per 1.847 metri, durante la quale il conducente sparava all’impazzata, forzando la zona pedonale e procedendo a zigzag, così da provocare il numero massimo di vittime: ottantaquattro morti e più di duecento feriti, di cui cinquanta in condizioni gravissime.  L’attentatore, alla fine, fu ucciso dai colpi di arma da fuoco esplosi dalla polizia contro la cabina di guida. L’attentatore, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, anche in questo caso era tunisino.

Tunisia, un Paese fragile: – Sono oltre 1500 i prigionieri detenuti nelle carceri tunisine con l’accusa di fare parte di organizzazioni terroristiche islamiche, mentre supera il migliaio il numero dei combattenti radicali rientrati nel paese nordafricano dopo aver partecipato, fra le file del sedicente Stato islamico (Is) o di altre reti integraliste, ai conflitti mediorientali. Inoltre, si calcola che siano partiti volontariamente per i fronti siriano e iracheno almeno 5mila tunisini, ma la cifra corretta potrebbe addirittura raggiungere quota 8mila. Uomini e donne che hanno partecipato a vario titolo e con ruoli diversi alla edificazione della Dawla (così i seguaci di Abu Bakr el-Baghdadi indicano il loro “califfato” islamico) e che, dopo la sconfitta del Daesh (acronimo arabo dispregiativo che indica appunto l’organizzazione Is), si sono sparpagliati in tutta la regione. Alcuni di loro hanno rinnegato la causa integralista, ma si tratterebbe, secondo indicazioni di intelligence, di una minoranza, a fronte di uno zoccolo duro che potrebbe tentare di destabilizzare nuovi scenari. Non vanno sottovalutati neanche i cosiddetti “cani sciolti”, che hanno continuato a segnare il territorio tunisino nel quadriennio intercorso fra il 2015 (attentati del museo del Bardo e della località turistica di Sousse) e il 27 giugno 2019, quando un duplice attacco coordinato avvenuto nella capitale ha dimostrato la determinazione integralista. Proprio questo evento ha convinto le autorità ad aumentare il livello di allerta e le misure di sicurezza non solo a Tunisi, ma in prossimità di tutti gli snodi nevralgici e dei siti sensibili del Paese. In una cornice sociale di sostanziale delusione nei confronti della classe politica, incapace di rilanciare la crescita economica e il processo democratico, la sirena islamica radicale potrebbe avere gioco facile nel reperire manodopera fresca, qualora i nuovi eletti non sapessero scuotere il paese dal torpore attuale. In un rapporto del 2019 della Banca africana per lo sviluppo, si legge che: “oggi come otto anni fa, alla vigilia della rivoluzione, nelle aree rurali del Paese ha un lavoro solo un giovane su tre, mentre nelle città il rapporto è di uno a cinque. E pure fra i diplomati e i laureati niente è cambiato nonostante la fine del regime dittatoriale: fra il 30 e il 35 percento dei giovani è senza impiego”. Nell’ultimo video propagandistico dello Stato islamico nella provincia di Kairouan, condiviso mediante social network, i seguaci del Daesh concentravano la propria attenzione sull’importanza del reclutamento di nuove forze in Tunisia, ben sapendo che il terreno seminato dalla disperazione è fertile.

*[Ugo Terracciano – Presidente AICIS e Responsabile del Laboratorio sul terrorismo presso l’Università di Chieti-Pescara]

 

 

 

 

 

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