Il detenuto si toglie la vita? Nessun risarcimento alla famiglia se non c’è la prova che il fatto fosse prevedibile. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nella sentenza 24758/2023. Insomma, spetta ai familiari provare che l’amministrazione penitenziaria non abbia colto i segnali di disagio. Segnali significativi, peraltro, considerato che nel caso di specie alcuni comportamenti autolesionisti del detenuto che si era tolto la vita nella sua cella, usando un fornelletto a gas e un sacchetto di plastica, erano stati catalogati come sporadici e strumentali per ottenere vantaggi. Invece, alla base del gesto, secondo i parenti, i molti trasferimenti. A fronte delle varie visite psichiatriche, che non avevano evidenziato il rischio di un gesto estremo, a nulla era servita una lettera-testamento trovata in cella, visto che i ricorrenti non avevano potuto dimostrare che l’amministrazione carceraria fosse a conoscenza dello scritto. Né esiste un diritto assoluto ad essere spostato in istituti di pena vicino ai familiari, perché il trasferimento deve essere compatibile con le esigenze di organizzazione carceraria.