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Una macchina con a bordo tre persone, due uomini e una donna, passandogli accanto a forte velocità, lo ha sfiorato facendogli cadere la birra che aveva in mano. Le schegge della bottiglia nel frantumarsi a terra hanno colpito alle gambe la sua fidanzata. Il ragazzo ha reagito d’impulso insultando il conducente, che ha frenato ed è sceso dall’auto insieme al secondo uomo. I due hanno violentemente picchiato il diciottenne, colpendolo con calci e pugni, fino a farlo cadere a terra. Poi uno ha estratto un coltello a scatto e lo ha colpito due volte all’addome e una volta alla schiena. Non è successo nel Bronx, ma l’altra sera a Bergamo. E cosa avrebbe dovuto fare quell’automobilista? Tenersi gli insulti? (la domanda per chi non l’avesse capito è tristemente ironica). E che cosa avrebbe dovuto fare la signora Silvana di Treviglio, esasperata dal conflitto col vicino di casa? Ha preso la pistola e gli ha sparato quattro colpi di pistola: tre al busto e uno alla gamba. Un colpo anche alla moglie che a malapena si è salvata.
Non stiamo parlando di gangster, ma di gente “normale”, se ancora di normalità si può parlare.
Quanto erano meglio (si fa per dire) i tempi in cui le persone normali stavano da una parte e i delinquenti dall’atra. I primi timorati degli altri i quali detenevano il monopolio della violenza e dell’illegalità. Insomma, si sapeva di chi avere paura. Ora nella società liquida il confine tra il bene il male, tra il criminale e il cittadino modello, diventa sempre più labile, fino alla “normalizzazione del crimine”. Casi di una violenza efferata e moventi a dir poco inconsistenti.
Una società liquida, che il filosofo Zygmunt Bauman ha definito paragonando il concetto di “modernità” e “postmodernità”, rispettivamente allo stato solido e liquido della società. “Mentre nell’età moderna tutto era dato come una solida costruzione – sosteneva Bauman – “ai nostri giorni, invece, ogni aspetto della vita può venir rimodellato artificialmente. Dunque, nulla ha contorni nitidi, definiti e fissati una volta per tutte. Ciò non può che influire sulle relazioni umane, divenute ormai precarie in quanto non ci si vuole sentire ingabbiati”.
Relazioni liquide, appunto, prima d’amore, poi di possesso, poi di violenza, delitti imperfetti per persone cosiddette normali.
Non era forse normale, fino al giorno prima, quel venticinquenne di Vicenza che in marzo ha ucciso i genitori? Movente: un bel malloppo da 800mila euro. Il caso ha fatto notizia per uno o due giorni: altro che quello storico di Erika e Omar che stette sulle cronache per mesi e mesi se non per anni. O quello di Pietro Maso. Oggi no.
Perché? Dietro questo scarso interesse dei media aleggia lo spettro della normalizzazione del crimine.
Quel giovane, gli amici lo chiamavano “il mona”, che in Veneto non è un complimento. Non un genio del crimine, Diego Gugole, ma uno che fa fuori i genitori per comprarsi casa e macchina e campare di rendita finché il salvadanaio dell’eredità – 800 mila euro – non fosse vuoto. Poi va in confusione, crolla dopo la telefonata di un’amica della madre e si costituisce. Che razza di criminale è, uno che crolla perchè parla con l’amica della madre uccisa solo per garantirsi una vita senza lavorare?
E chi avrebbe mai pensato, d’altra parte, a quante madri o padri uccidono i figli? Secondo un rapporto Eures sugli ‘Omicidi in famiglia’, tra il 2000 e il 2019 i figlicidi in Italia sono stati 473 in totale, nel cui novero 85 i bambini con meno di un anno.
C’è poi l’amore che si trasforma in odio assassino quando un rapporto naufraga. Un tempo si diceva “chiodo scaccia chiodo”, ora si spara. Gli episodi sono innumerevoli. L’ultimo il primo marzo nel salernitano: lui entra in un salone di bellezza, uccide una giovane parrucchiera al lavoro poi si dà alla fuga. A sparare i colpi mortali alla trentenne l’ex fidanzato che non ha accettato la fine della loro relazione sentimentale vendicandosi in questo brutale modo. Alla base un sentimento di gelosia, di rabbia e di vendetta.
Assassini, ma “persone normali” (si fa per dire), sempre che il concetto di “normale” abbia ancora significato.
“L’omicidio” – dicono ora gli psicologi – “se non si tratta di criminalità organizzata e di regolamenti di conti per ragioni illegali, per esempio, di traffici illeciti, è la conseguenza di emozioni negative, quali paura, odio, ansia e rabbia, frustra zione e disperazione, gelosia e desiderio smodato di ricchezza, umiliazione e vendetta, repressione e risentimento, e in persone malate di mente con deliri di persecuzione, di grandiosità oppure mistici”.
Non più “buoni” e “cattivi”, delinquenti e uomini onesti, a quanto pare, e perciò ci chiediamo se valgano ancora le teorie da anni dibattute tra sociologi e criminologi sulle cause del crimine.
Non più “il delinquente nato” di Lombroso; non più la devianza causata da situazioni di “anomia” di Marton e Durkheim; e nemmeno il delinquente che “si conforma alle aspettative del suo ambiente” di Edwin Sutherland.
Nel mondo globalizzato e fluido, nella società liquida c’è un nuovo modello di devianza? Quello del criminale per caso: un giorno persona normale e il giorno dopo omicida spietato?
Un criminale anch’esso liquido, nella società liquida di Bauman, sì ma la domanda è: di che liquido stiamo parlando?
AICIS