La storia criminale di Roberto Succo comincia in un lontano aprile del 1981 e coincide con un’assenza. Alla questura di Mestre freme una certa preoccupazione, Nazario Succo, diligente poliziotto, non si presenta al commissariato da ben due giorni. Il commissario, dunque, invia due agenti alla palazzina popolare, in via Terraglio, ove i coniugi Succo si sono trasferiti da non molto. Gli agenti non ricevono risposta e decidono di entrare all’interno dell’abitazione, sfondando una finestra, la casa è immersa nel buio e non si ode nessun tipo di rumore. Nessuno risponde alle loro esortazioni. Né il Succo, né la moglie Maria e nemmeno il figlio Roberto. Gli agenti continuano a perlustrare la casa, senza notare nulla di sospetto.
Poi giungono alla porta del bagno.
La aprono lentamente.
Lì, davanti a loro, si presenta una scena raccapricciante, i coniugi Succo sono distesi nella vasca.
Privi di vita.
Sono stati trucidati a colpi di coltello.
Sulla scena del crimine arriva la polizia scientifica che tenta di ricostruire la criminodinamica dell’omicidio: a prima acchito sembrerebbe che per prima sia stata uccisa la signora Maria, l’assassino l’ha colpita con diverse coltellate, circa una decina, in cucina e poi successivamente trascinata nel bagno, ove riversa nella vasca l’assassino si è scagliato contro di lei con l’obiettivo di finirla. Successivamente il rubinetto dell’acqua che scorre ha ricoperto il corpo della vittima. Nazario Succo, rientrato in caso verso mezzanotte, dopo aver finito il turno presso il commissariato, è stato colpito subito dal suo aguzzino, proprio sull’uscio della porta di casa, con un fendente e poi trascinato in bagno e gettato anch’egli nella vasca, sopra il corpo della moglie e coperto d’acqua. Le indagini sono subito avviate, ricostruito il modus operandi, si cerca immediatamente un movente ricostruendo la personalità di Succo, un poliziotto solerte, attento, che non si occupa di indagini speciali, né di criminalità organizzata o di crimini dei colletti bianchi, per gli investigatori un suo coinvolgimento in qualcosa di ambiguo è inverosimile. La polizia, però, ha un sospettato, il figlio dei due coniugi del quale non si hanno più tracce, Roberto. Roberto Succo ha 19 anni, frequenta il liceo scientifico a Mestre e un studente invisibile, molto tranquillo, forse troppo. Taciturno, con un carattere molto introverso, ha la passione del culturismo ma non sono mai stati rilevati dei litigi con i genitori, come riportano i vicini di casa. Il sospetto è fondato: sulla scena del crimine ci sono i suoi vestiti sporchi di sangue. Il sangue dei suoi genitori. Scatta l’ordine di ricerca, esteso oltre al Veneto, c’è la descrizione dei suoi vestiti, jeans e maglioncino marrone, la macchina con cui viaggia, l’Alfasud blu del padre e soprattutto definito armato e pericoloso giacché ha con sé la pistola d’ordinanza del poliziotto Succo, una Beretta automatica 92 S con quindici colpi calibro 9 per 19.
Il 13 aprile del 1981, due giorni dopo l’omicidio, lo trovano in una pizzeria in Friuli-Venezia-Giulia, in provincia di Udine, grazie alle segnalazioni di qualcuno che aveva notato la macchina descritta dai Tg girovagare per il paesino con l’accorgimento di utilizzare una targa falsa, rubata a un’altra macchina. I carabinieri si scagliano subito contro Roberto, che è pronto a usare resistenza usando la pistola sottratta al padre, ma il maresciallo dei CC ha la meglio su di lui. Roberto oltre alla pistola ha con sé un coltello, proprio quel coltello con cui ha ucciso i coniugi Succo, i suoi genitori. L’arma del delitto. In caserma, Succo giunge in stato confusionale, raccontando una storia onirica, al limite del surreale, dichiarandosi innocente e dislocando la colpa dell’omicidio sui carabinieri e spiegando la sua fuga come atto di sopravvivenza. Una grossa frottola. Giunge una macchina dal Commissariato di Mestre a prelevarlo per riportarlo davanti al Dottor La Barbera. Durante il viaggio, Succo, assume un atteggiamento silenzioso, laconico, resta muto, fin quando all’uscita dell’autostrada per Mestre, aggredisce i poliziotti che gli siedono accanto, colpendoli con una furia immane finché non riescono a immobilizzarlo. Davanti al dottor La Barbera, Succo ammette tutto, con un movente bizzarro, la madre colpevole di non riservargli più affetto e il padre di non avergli dato la macchina perché azzardava sull’acceleratore. Anche davanti al sostituto procuratore Dragone conferma tutto, non solo l’omicidio ma anche la dinamica, prima la madre e poi il padre, che ha colpito prima con un coltello e poi con un’ascia dopo avergli infilato la testa in un sacchetto di plastica. I corpi li ha ricoperti d’acqua con lo scopo peculiare di coprire l’odore e ritardarne, ergo, la scoperta. Ha atteso che facesse giorno, poi con la macchina del padre, si è diretto verso Brescia per andare dallo zio a raccontargli tutto, perdendo il coraggio durante il tragitto, tornando a Mestre e girovagando per la città, finanche a tornare a casa, forzando i sigilli della polizia per portare via i corpi e occultarli. Ripartito si è fermato a dormire in macchina, in un parcheggio poi nella pizzeria dove l’hanno preso. Con il magistrato Roberto appare mansueto, attento alla lettura del verbale di interrogatorio che corregge di tanto in tanto, con dettagli sull’omicidio in materia di anatomia in cui è particolarmente esperto, racconta che da piccolo si divertiva a sezionare gli animali dopo avergli somministrato del cloroformio. Le perizie psichiatriche riportano una diagnosi di schizofrenia e a Roberto è concessa la non imputabilità e dunque l’infermità di mente con immediato ricovero presso l’allora manicomio criminale di Reggio Emilia, ove dovrà essere curato e tenuto sotto osservazione per dieci anni. L’ordine cronologico delle cose non va, però, in questa linea, tanto che Succo resta in manicomio solo sei anni, non per inadempienza della giustizia ma perché Roberto dal manicomio evade. Nel manicomio, Roberto segue un percorso decoroso, non crea problemi ma scrive delle lettere macabre a Don Domenico Franco, un sociologo conosciuto nel periodo detentivo. Gli scrive che potrebbe tenere testa a cinque sorveglianti con una mano sola e poi vorrebbe soffocarli ma si trattiene perché desidera tornare libero per rivedere la luce del sole e non essere più un animale in gabbia. Scrive anche del suo passato, di quando andava a scuola e della misoginia nei confronti delle sue compagne di scuola che avrebbe voluto uccidere. Nonostante queste lettere e la conoscenza di Wolfang Abel, serial killer che insieme a Marco Furlan ha messo in atto una serie di delitti firmandosi con l’appellativo Ludwing, si comporta bene, finisce addirittura il liceo e si immatricola all’università, alla facoltà di scienze naturali, iniziando a dare esami, ottenendo delle licenze di studio fuori dal manicomio per frequentare corsi più impegnativi. Durante una di queste licenze Roberto non rientra in manicomio, si dilegua nel nulla a 25 anni. Scompare per ben due anni quando poi riappare a Parigi, la polizia francese lo identifica come pericoloso assassino e gli da la caccia per 15 giorni. Il 28 gennaio del 1988, i poliziotti francesi si recano in un albergo a Tolone con l’intento di cercare un certo Andrè, che la notte prima aveva sparato in bar, ferendo un uomo alla schiena durante una rissa. Nell’albergo la polizia sta ancora chiedendo informazioni quando il suddetto Andrè arriva nella hall, estrae la pistola e si mette a sparare contro i poliziotti, uno dei due ispettori si accascia a terra, ferito e incosciente mentre l’altro, resta in ginocchio, colpito a un braccio e una gamba, avvicinato da Andrè l’ispettore gli supplica di non ucciderlo ma Andrè, con gli occhi di ghiaccio, lo fredda senza pietà e fugge via. Dopo l’omicidio dell’ispettore francese, alla gendarmeria si presenta una ragazza francese di 16 anni che dice di essere amica di Andrè e rileva che il suo nome non è Andrè ma Roberto Succo, un tipo pericoloso. Con le impronte digitali la polizia non ha dubbi, Andrè e Succo sono la stessa persona e quello che si evince sono particolari che rabbrividiscono. Con gli stessi connotati di Andrè un altro uomo è stato notato in Svizzera, dove ha aggredito un gestore di una stazione di servizio per rubargli la macchina, che successivamente ha abbandonato per fermarne un’altra e tenere in ostaggio la ragazza che la guida. Vuole farsi portare a Berna e minaccia di ucciderla senza remore, sulla strada, però, hanno un incidente e la ragazza riesce a scappare. Giunta la polizia, l’uomo dagli occhi di ghiaccio non ha freni, spara contro la polizia svizzera finché non riesce a scappare. A Lyss, non lontano da Berna, sequestra e stupra tre donne, una finisce in stato di shock mentre le altre due riescono a dare una descrizione dettagliata dell’uomo, che anche qui, si faceva chiamare Andrè. Nella macchina rubata ci sono delle impronte che corrispondono a quelle di Parigi. Roberto si trova in Svizzera. Nascosto da qualche parte. Il mandato di arresto è internazionale, tutte le polizie sono allertate e cominciano a dargli la caccia. A Lione la polizia ferma un ragazzo sui vent’anni, ma le impronte non corrispondono. Non è Roberto. La polizia riceve una segnalazione il 20 febbraio nell’Alta Provenza, ma anche in questo caso si rileva un flop. Roberto è ancora libero, armato, pericoloso.
Dopo averlo cercato per tutta Europa, il 29 febbraio, nei pressi di Conegliano, la squadra mobile di Treviso lo becca verso le dieci e mezza, una decina di agenti in borghese gli tende una trappola, coperti dagli uomini delle squadre speciali. Sono giunti lì, dopo una serie di segnalazioni da Belluno, a Milano, e infine a Treviso. Gli balzano addosso e lui reagisce con una forza bruta, si divincola e riesce a scappare dirigendosi verso un’altra macchina rubata a Brescia, ma alla macchina non arriva, gli agenti lo braccano atterrandolo e ammanettandolo. Nella macchina ha una Smith & Wesson calibro 38 Special con cui ha fatto fuori l’ispettore francese e un documento falso, intestato a un dipendente delle ferrovie dello Stato, carta di credito e libretto di banca. Inoltre ha molti liquidi con sé, sia lire che franchi francesi. Una cartina geografica e un piano di fuga per la Sicilia con destinazione Nord Africa. In questura alla domanda sulla professione, Roberto dice di essere un killer, di ammazzare la gente. Si vanta di aver preso in giro le polizie di mezza Europa, di non aver rapporti con la criminalità organizzata e di essere riuscito nella sua latitanza grazie alle donne, le sue donne, quelle che di lui erano innamorate e in Francia ne vengano fermate tre con l’accusa di favoreggiamento. Non solo. Anche quelle sequestrate, violentate e minacciate. I capi di accusa sono molti, dalle numerosissime violenze carnali ad altrettanti omicidi. Oltre ai genitori, all’ispettore, c’è una ragazza vietnamita, rapita e poi massacrata a coltellate, un medico di Annecy ucciso dopo essersi fatto dare un passaggio, un’altra donna nella stessa città freddata con un colpo di pistola e infine un poliziotto svizzero ucciso al controllo dei documenti a Tesserve. Succo è richiuso nel carcere di Treviso dove non potrà più nuocere. O forse si? Proprio quando in prefettura il primo dirigente si congratula con il capo della squadra mobile per la cattura di Succo, al carcere di Treviso, Roberto si trova nel cortile per l’ora d’aria, sorvegliato a vista da tre agenti di custodia, che si distraggono un attimo. Nel frangente di questa distrazione, Roberto si aggrappa alla tettoia alta più di due metri e riesce a salire sul tetto del carcere che viene subito circondato da polizia, carabinieri e giornalisti. Roberto si denuda, restando in slip e inizia a parlare con i giornalisti. Ce l’ha a morte con una donna, la ragazzina di 16 anni che l’ha segnalato, l’unica che lui abbia amato. Dopo un’ora Roberto finisce il suo spettacolo, si aggrappa al cavo per passare sul tetto dell’abitazione del direttore e poi si ferma, dichiarando di voler dimostrare come si muovono i parà, inizia a dondolarsi reggendosi con le mani. Quando cerca di saltare sul terrazzino non riesce e cade, fa un volo di sei metri, si rompe tre costole e si lussa una spalla. Neanche in questo stato si ferma, i medici dell’ospedale sono costretti a sedarlo prima di caricarlo su un’ambulanza e spedirlo al carcere di Livorno, in cella di isolamento. A marzo la Francia chiede l’estradizione di Succo per paura che una perizia possa giudicarlo infermo di mente, arrivano altre istanze da parte di giudici svizzeri e francesi per altri casi imputati a Succo. A Treviso arriva un magistrato francese per interrogarlo, un interrogatorio che dura dieci minuti ove Succo parla francese con frasi prive di senso per poi passare all’italiano e infine avvalendosi della facoltà di non rispondere. Nel maggio dello stesso anno, un collegio di periti giunge alla stessa diagnosi precedente: schizofrenico e socialmente pericoloso. Il giudice è costretto a riconoscergli l’incapacità di intendere e di volere. Nonostante le proteste dei francesi, Succo deve tornare in manicomio criminale. Le cose, però, assumono tutt’altra strada. Dal carcere di Livorno Succo viene trasferito al carcere di Vicenza per una questione logistica, ossia la vicinanza al tribunale per evitare fughe durante i trasferimenti. Anche qui è destinato a una cella di isolamento, sorvegliato per tutto il giorno, tranne la notte. La mattina del 23 maggio, dallo spioncino, si accorgono che Roberto è ancora a letto, con la testa coperta dal cuscino, come sempre, ma inizia a essere tardi e Roberto ancora non si alza dal letto. Gli agenti si preoccupano e entrano. Sollevato il cuscino si rendono conto che Roberto ha la testa infilata in un sacchetto di plastica e vicino vi è un bomboletta vuota, che era piena di gas, usata per illuminare. Roberto aveva preparato tutto, era riuscito a procurarsi del nastro adesivo, il sacchetto di plastica e la bomboletta data in dotazione a tutti i detenuti. Infilata la testa nel sacchetto, lentamente aveva fatto fuoriuscire il gas all’interno del sacchetto e gradualmente aveva perso conoscenza, fino al soffocamento. Questa volta nessun trucco. Il cherubino nero ha fatto ancora parlare di lui sui giornali, con un’evasione speciale, l’evasione dalla vita. Roberto ha scelto la morte con spietata lucidità.
Bibliografia
Carlo Lucarelli, Massimo Picozzi, Serial killer: Storie di ossessione omicida, 2003, Mondadori

Deborah Bottino Criminologa AICIS