di Roberto Colasanti*
L’arresto del latitante Matteo Messina Denaro, in cima alla lista dei ricercati dalle forze di polizia stilato dal Ministero dell’Interno avvenuto il 16 gennaio 2023 a Palermo a distanza di circa trent’anni dal primo provvedimento restrittivo in carcere del predetto, ha suscitato reazioni, commenti ed in alcuni casi letture degli accadimenti basate su argomentazioni prive di solide conoscenze di criminologia investigativa maturata in contesti operativi ad alto indice di criminalità mafiosa.
Informazione e lotta alla mafia
Noti esponenti del giornalismo italiano stanno contribuendo a diffondere tesi che mirano a sminuire il risultato raggiunto dagli investigatori, alimentando il sospetto di trattative tra lo Stato e la Mafia o la resa concordata da parte del boss mafioso in ragione delle sue precarie condizioni di salute.
Questo modo di fare informazione, seppure rientri in quella che suole definirsi libertà di espressione oltre a non rendere il giusto merito agli sforzi ed ai prolungati sacrifici delle forze di polizia e dei magistrati inquirenti, contribuisce a creare un’immagine del potere dello Stato assai debole che non riuscendo a sconfiggerne i capi carismatici della mafia non trova altra soluzione che scendervi a patti.
E’ evidente che tutto ciò appartenga alle strategie di comunicazione legate alla conquista e mantenimento del potere politico che è il padre di tutti i poteri, in quanto consente di amministrare comuni, regioni e lo stesso Stato che fa le leggi in materia.
Attività di studio e investigazione
Questo intervento si prefigge il solo scopo di fornire al lettore alcuni elementi conoscitivi sull’attività di ricerca dei latitanti mafiosi, acquisiti dall’esperienza diretta dello scrivente maturata nei confronti di latitanti appartenenti alla mafia calabrese e siciliana.
Preliminarmente va detto che la persona destinataria di un provvedimento restrittivo della libertà personale viene dichiarata latitante con decreto del giudice della procedura a seguito della ricezione del verbale di vane ricerche della polizia giudiziaria.
Dalla dichiarazione dello status di latitanza ne consegue che:
- Il procedimento penale in corso andrà avanti con la nomina di un difensore d’ufficio presso il quale saranno notificati tutti gli atti successivi onde salvaguardare il diritto di difesa e non compromettere la prosecuzione dell’iter giudiziario sino alla sua conclusione;
- Il reparto/comando o ufficio di polizia giudiziaria che ha in carico il provvedimento restrittivo della libertà personale potrà procedere alla perquisizione dei luoghi ove ha motivo di ritenere possa trovarsi il latitante, ottenere l’autorizzazione all’intercettazione di comunicazioni telefoniche o di altre forme di telecomunicazione nonché nel caso di reati di mafia la captazione di comunicazioni tra presenti.
L’attività di ricerca del latitante non può prescindere dalla conoscenza delle relazioni dello stesso, partendo dai rapporti parentali, di affinità ma anche di comparatico, il che significa tenere sotto controllo una cerchia di persone numericamente variabile, ma comunque importante che richiede notevoli risorse in termini di uomini, mezzi e ore di lavoro, dovendo espletarsi con continuità sino alla sua conclusione.
Alla suddetta cerchia di persone devono aggiungersi per il mafioso, gli affiliati ovvero coloro che fanno parte della famiglia mafiosa ed ancora quelle persone che pure non facendo parte stabilmente dell’organizzazione criminale, favoriscono volenti o nolenti la latitanza del mafioso.
Le cosche mafiose siciliane o calabresi traggono la loro forza dalla capacità di controllare militarmente il territorio sul quale esercitano il dominio imponendo la propria legge che quando viene infranta fa scattare punizioni esemplari e molto spesso la condanna a morte.
Il terrore delle popolazioni locali è tangibile e l’omertà che ne deriva appare ai loro occhi l’unico sistema di difesa praticabile per la sopravvivenza. A questo si aggiunga che le famiglie mafiose oltre alle attività illegali da cui traggono profitti stratosferici, parallelamente amministrano tramite dei prestanome imprese economiche che operano alla luce del sole in vari settori del commercio, dell’industria e dell’agricoltura, per il funzionamento delle quali occupano numerose maestranze che seppure lontane ed estranee alle famiglie mafiose, traggono sostentamento da tale regolare rapporto di lavoro.
Da qui il principale motivo per cui i mafiosi trascorrono la maggior parte del periodo di latitanza nel territorio sul quale esercitano la loro azione criminale, ma anche la gestione delle attività imprenditoriali operanti in settori legali.
Il capo mafioso rimanendo nel proprio territorio continua ad impartire ordine ai propri affiliati ed a gestire gli affari criminali ed i propri interessi economici incutendo ancora maggiore timore, perché tutti sanno che è presente, ma nessuno – tranne pochi fidati -, sa con certezza dove si trovi e per quanto potrà rimanervi.
Allontanarsi dal proprio dominio territoriale significa uscire fuori dall’area di influenza e protezione quindi essere più deboli ed esposti a controlli e segnalazioni alle forze di polizia, ma soprattutto serve ad evitare che altri mafiosi invadano lo spazio di competenza.
Gli arresti dei mafiosi tristemente noti: Salvatore Riina[1] di Corleone (PA) capo assoluto di Cosa Nostra, avvenuto il 15 gennaio 1993 a Palermo, dopo 24 anni di latitanza; Leoluca Bagarella[2] di Corleone (PA) capo mandamento di Corleone, avvenuto il 24 giugno 1995 a Palermo; Giovanni Brusca[3] di San Giuseppe Jato (PA), capo dell’omonimo mandamento, avvenuto ad Agrigento il 20 maggio 1996; Bernardo Provenzano[4] di Corleone (PA), capo di Cosa Nostra, avvenuto a Corleone (PA) l’11 aprile 2006, dopo 38 anni di latitanza e da ultimo Matteo Messina Denaro di Castelvetrano (TP), capo del mandamento di Castelvetrano (TP) avvenuto a Palermo il 16 gennaio 2023, dopo 30 di latitanza, sono una tangibile dimostrazione di quanto sopra enunciato.
Una riprova del contrario, ovvero dei rischi che corrono i latitanti nel momento in cui si allontanano dalla propria area di influenza è rappresentata ad esempio dalla cattura di Vito Badalamenti avvenuta in un comune della provincia di Pesaro e Urbino nell’anno 1996 ad opera dei Carabinieri della Compagnia di Fano (PU), i quali l’avevano sorpreso mentre era in visita ad un suo parente, grazie alla sollecita segnalazione di fonti informative locali. Nelle aree in cui sono fortemente radicate le associazioni di tipo mafioso le fonti di informazione sono rarissime e perciò diventa enormemente più complicato giungere alla cattura del latitante.
I latitanti della mafia calabrese egualmente rimangono fortemente legati al proprio dominio territoriale ed anche qui gli arresti dei diversi latitanti ne sono una chiara testimonianza. In molti casi i capi cosca son stati trovati nascosti in rifugi/bunker ricavati all’interno della propria abitazione trasformata in una vera fortezza difensiva presidiata da impianti di videosorveglianza esterna, con porte ed imposte blindate perennemente chiuse per evitare qualsiasi forma di intrusione.
In queste circostanze non è sufficiente avanzare sospetti sulla presenza del latitante all’interno dell’edificio, ma occorre raggiungere un concreto riscontro al fine di procedere con attività altamente invasive e addirittura distruttive quali l’abbattimento di mura, la perforazione di solai o la rimozione di sanitari e altre strutture architettoniche.
Nella pluriennale lotta alla mafia ed ai suoi rappresentanti i carabinieri hanno continuamente affinato i metodi di indagine e gli strumenti operativi, ma spesso l’intuito e la creatività investigativa hanno fatto la differenza nell’ottenere il risultato sperato anche con gli ordinari mezzi a disposizione.
Un esempio nel senso è dato dalla cattura di un latitante calabrese di una nota famiglia mafiosa di Marina di Gioiosa Ionica (RC) ricercato da tempo. All’ennesima perquisizione domiciliare, effettuata dai militari dell’Arma che sospettavano si celasse in qualche nascondiglio ricavato nell’abitazione, due carabinieri approfittando dalla confusione creata ad arte dai colleghi, si nascosero sul terrazzo posto all’ultimo piano della villa. Trascorsi dieci minuti dalla fine della perquisizione e dall’allontanamento degli altri operanti, i due carabinieri scesero nell’abitazione sorprendendo il ricercato che stava tranquillamente seduto sul divano del salone. Lo stratagemma ovviamente non fu più ripetuto.
Un altro illuminante esempio è costituito dalla cattura, avvenuta il 4 aprile 1995 in agro del comune di Martone (RC), dopo 13 anni di latitanza di Giuseppe Ierinò, alias “Peppe Manigghia” capo dell’omonima famiglia dominante sui territori di Gioiosa Ionica e aree limitrofe ad opera dello Squadrone eliportato carabinieri cacciatori della Calabria. Nel corso di 13 anni Giuseppe Ierinò[5] aveva continuato a vivere in quei territori ove poteva contare sulla copertura incondizionata dei familiari e degli affiliati ed a nulla avevano portato i notevoli sforzi investigativi dei Carabinieri della Compagnia di Roccella Ionica che avevano in carico il provvedimento restrittivo.
Le caratteristiche del territorio scarsamente urbanizzato con prevalenza di aree montane e boschive erano state ampiamente sfruttate negli anni per nascondere le vittime dei sequestri tra le quali Roberta Ghidini, prelevata a forza a Brescia e trasportata in poche ore in quelle zone impervie, ove era rimasta in mano ai sequestratori appartenenti alla famiglia Ierinò che la spostavano continuamente da un rifugio all’altro per evitare la localizzazione.
Per tali motivi l’Arma il 1° luglio 1991, aveva istituito lo Squadrone eliportato carabinieri cacciatori della Calabria[6] e nello stesso ambiente in cui il latitante Ierinò era solito muoversi venne catturato quel 4 aprile 1995, ponendo fine al suo tentativo di fuga stroncato da un proiettile indirizzato ad una gamba. All’atto dell’arresto era armato ed a bordo della Fiat Uno in cui viaggiava furono rinvenuti 4 detonatori elettrici. I carabinieri dello squadrone idoneamente equipaggiati per mimetizzarsi e resistere alle intemperie e al freddo, si erano infiltrati nottetempo nella fitta vegetazione montana, realizzando più posti di osservazione e allarme per tenere sotto controllo la vallata, sino al momento in cui avevano visto arrivare l’auto da cui era disceso il latitante e da lì era scattato l’inseguimento culminato con la cattura.
Alle strategie organizzative delle forze di polizia con l’istituzione di reparti speciali come il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri e gli Squadroni Eliportati[7] dedicati al contrasto della criminalità organizzata ed alla cattura dei latitanti e all’impiego di strumenti e tecnologie sempre più sofisticati, le famiglie mafiose sembrano rispondere con metodologie rudimentali ma efficaci per evitare la localizzazione del latitante.
Bandite le comunicazione telefoniche o tramite altri sistemi, i messaggi o parte di essi sono veicolati tramite “i pizzini” pezzi di carta contenenti parole o frasi comprensibili solo ai destinatari del messaggio.
Seppure utili le intercettazioni di conversazioni tra presenti difficilmente riescono ad essere risolutive per la ricerca del latitante, anche quando riguardano i familiari più stretti con i quali è certo si sia incontrato in varie occasioni, infatti è capitato che prolungati servizi di intercettazione ambientale riguardante il nucleo familiare sono risultati infruttuosi a riprova che i mafiosi, i familiari e gli affiliati sono consapevoli di poter essere pedinati, intercettati e perquisiti in ogni istante.
Il latitante però non può limitarsi a rimanere nascosto, ne può rimanere troppo a lungo nel medesimo posto aumentando il rischio di essere scoperto, ma deve trovare il modo per muoversi in sicurezza anche in previsione di cure sanitarie come dimostra il caso di Matteo Messina Denaro avvalendosi della copertura di identità di persone incensurate e non riconducibili alla cerchia di familiari, affini, compari o affiliati.
L’utilizzo dell’identità di un affiliato per eseguire degli esami di laboratorio era stato riscontrato anche nel caso del latitante Giuseppe Ierinò nel corso di una perquisizione all’abitazione della sua famiglia acquisita, con il rinvenimento di un referto di laboratorio di analisi intestato ad un soggetto estraneo.
Conclusioni
Le investigazioni per la ricerca del latitante mafioso comportano l’espletamento di attività articolate e complesse che necessitano di una conoscenza approfondita della persona in tutti i suoi molteplici aspetti quali ad esempio: i dati fisici, i dati sanitari, il credo religioso, i gusti sessuali, l’uso o abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti, le patologie sofferte, il vizio del gioco, il collezionismo, i soggiorni trascorsi in località italiane o estere, le letture preferite etcetera, nonché del contesto territoriale in cui si muove ed opera, al fine di arrivare a pensare come il latitante e prevedere le sue possibili azioni future.
Scoprire il punto debole del sistema difensivo del latitante può risultare vincente e l’individuazione della falsa identità con la quale Matteo Messina Denaro aveva accesso alle cure sanitarie è stata sicuramente determinante, ma come spesso accade il confine tra l’acume degli investigatori e l’errore commesso dal latitante può apparire agli occhi dei non addetti ai lavori molto sottile.
References:
[1] Noto come Totò Riina è deceduto nel 2017 all’interno del carcere di Opera a Parma ove stava espiando la pena per più ergastoli
[2] Tuttora detenuto
[3] Collaboratore di giustizia dopo 25 anni di reclusione è tornato in libertà il 31 maggio 2021 in regime di libertà vigilata
[4] Deceduto il 13 luglio 2016 a Milano (ospedale) in corso di espiazione pena
[5] Giuseppe Ierinò è attualmente detenuto
[6 ]Dalla sua istituzione ha catturato 282 latitanti e scoperto e localizzato oltre 400 bunker
[7] Attualmente sono presenti in Calabria, Sicilia, Sardegna e Puglia
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L’AUTORE
Roberto Colasanti, Colonnello dei Carabinieri in Congedo, coordinatore del team “Crime Analyst and Investigation” di AICIS.
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