(AICIS)

Anche i minori ultraquattordicenni potranno rivolgersi direttamente al Garante della Privacy per inoltrare segnalazioni contro il “revenge porn”. Si tratta di una novità introdotta nel decreto privacy (d.lgs. 30/6/2003) dal recente decreto-legge n. 139/2021

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Si tratta di una novità introdotta nel decreto privacy (d.lgs. 30/6/2003) dal recente decreto-legge n. 139/2021 recante “Disposizioni urgenti Disposizioni urgenti per l’accesso alle attività culturali, sportive e ricreative, nonché per l’organizzazione di pubbliche amministrazioni e in materia di protezione dei dati personali. Il nuovo articolo 144bis del citato d.lgs. 196/2003 recita infatti: Chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione senza il suo consenso in violazione dell’art. 612-ter del codice penale, può rivolgersi, mediante segnalazione o reclamo, al Garante, il quale, entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi dell’articolo 58 del regolamento (UE) 2016/679 e degli articoli 143 e 144. Quando le immagini o i video riguardano minori, la richiesta al Garante può essere effettuata anche dai genitori o dagli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela. Per le finalità di cui al comma 1, l’invio al Garante di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito riguardanti soggetti terzi, effettuato dall’interessato, non integra il reato di cui all’articolo 612-ter del codice penale”.

Alla luce della nuova norma schematizziamo qui di seguito la vigente disciplina.

Cos’è il revenge porn?

Il fenomeno del revenge porn (o revenge pornography) – locuzione traducibile in italiano con “vendetta porno” – è una pratica nata grazie dopo l’avvento e alle potenzialità comunicative pressoché illimitate offerte dalla rete internet, dalle chat telefoniche ed ai social che consentono di diffondere in tempo reale immagini su scala mondiale. Il termine indica la condivisione in forma pubblica di immagini o video intimi tramite internet senza il consenso dei protagonisti. Anche se la locuzione (usata tra l’altro anche dal legislatore italiano) faccia richiamo al concetto di ritorsione o vendetta, la pratica giudiziaria ha evidenziato come il “movente” possa anche essere ricollegato ad una gamma molto più variegata ed estesa di possibili motivazioni della condotta. Nella maggior parte dei casi, le immagini sono immortalate da un partner intimo e con consenso della vittima, in altri senza che la vittima ne sia a conoscenza.

In ambito minorile, il fenomeno si collega anche alla diffusa pratica del sexting, neologismo utilizzato per indicare l’invio di messaggi, testi e/o immagini, sessualmente espliciti, principalmente tramite il telefono cellulare o su profili social chiusi.

Come viene punito dalla legge?

Il reato di “revenge porn” è una nuova fattispecie di reato introdotta, con l’inserimento nel codice penale dell’art. 612-ter, dalla Legge n. 69 del 19 luglio del 2019, meglio nota come “Codice rosso”. La norma punisce con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000 “chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate”, sempre che il fatto non costituisca un più grave reato. Ad essere perseguito non è però solo chi originariamente mette in circolazione le immagini o i video poiché secondo la norma “la stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento”. Ci sono poi delle aggravanti: “La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza”.

Sulla formulazione della norma potremmo dire che probabilmente si poteva anche fare meglio. Pur evitando in questa sede ogni approfondimento dottrinale, un esempio per tutti con riguardo alle aggravanti. Piuttosto che prevedere una pena più grave (il che è sacrosanto) se il fatto è commesso “in danno di una donna in stato di gravidanza”, non sarebbe stato meglio scrivere “in danno di una donna in “evidente” stato di gravidanza” visto che per ragioni intuibili nei primi mesi tale dato potrebbe essere impercettibile ed ignorato dall’agente. Poi la condizione di gravidanza doveva essere preesistente allo scatto delle foto o alla registrazione del video, oppure coevo all pubblicazione e diffusione? Cosa possiamo dire poi della punibilità aggravata di chi a sua volta ricevute le immagini le diffonde, non tanto per averle diffuse ma col “fine di creare nocumento”? In questi casi il nocumento non è forse in re ipsa., dal momento che la diffusione non autorizzata rappresenta un danno in sé? Ma lasciamo stare perchè non è questo il luogo per le dissertazioni ermeneutiche.

Come si procede?

Il delitto è punito a querela della persona offesa.

In termini meno tecnici significa che non si procede, salvo che non sia la persona offesa direttamente a chiedere che l’agente o gli agenti siano puniti.

C’è però qualche particolarità rispetto al regime procedurale canonico della procedibilità a querela. Il termine per la proposizione è di sei mesi, contro i 90 giorni ordinari. La remissione della querela può essere soltanto processuale cioè non è possibile ritirarla prima di comparire di fronte al giudice, a differenza di ciò che invece è previsto nei casi ordinari.

Si procede tuttavia d’ufficio nei casi di fatto commesso contro persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio.

Perché segnalare al Garante della Privacy?

Dato che la segnalazione (o reclamo) può essere fatta solo nel caso in cui si sia perpetrata la violazione dell’art. 612-ter del codice penale, si potrebbe dubitare dell’utilità di un tale coinvolgimento dell’Autorità Garante.

Ma la segnalazione prescinde dalla proposizione della querela, poiché l’art. 144-bis del d.lgs. 196/2003 richiede che sussista la violazione della norma penale sul revange porn e non che per tale reato si stia procedendo. Così, la parte interessata potrebbe volere l’intervento del Garante e non quello del giudice.

Il dato più significativo, poi, è la tempestività dell’intervento del Garante il quale, ricevuta la segnalazione, deve procedere entro le successive 48 ore.

Nel predetto termine il Garante può imporre una limitazione provvisoria o definitiva al trattamento, incluso il divieto di trattamento; ordinare la sospensione dei flussi di dati verso un destinatario in applicazione delle norme del GDPR sulla Privacy.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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