Di sicuro c’è solo che è morto, anzi, che è stato ucciso dopo aver subito atroci sevizie. Tutto il resto è avvolto da una nebbia fatta di reticenze, presumibili depistaggi, squallidi tradimenti e sfacciata omertà. Ecco perché le indagini sul caso di Giulio Regeni – il ricercatore friulano morto nel 2016 in Egitto mentre lavorava alla sua tesi di dottorato – con buona pace dei suoi genitori che coraggiosamente non mollano, hanno imboccato un sentiero impervio che fatica ad essere illuminato da una luce di verità. E siccome la collaborazione della magistratura egiziana è fondamentale per uscire dal buio più assoluto, qualche giorno fa la Procura di Roma ha incontrato in videoconferenza i magistrati del Cairo sperando di ottenere un aiuto per nuovi accertamenti avviati a carico di cinque agenti della National Security individuati grazie alle risultanze dei tabulati telefonici.
Reciprocità, do ut des, o che cosa?
In modo del tutto inatteso, durante la call, il procuratore egiziano, Hamada Elsawy, “ha formulato alcune richieste investigative finalizzate a meglio delineare l’attività di Giulio Regeni in Egitto“, si legge nella nota della Procura di Roma, che aggiunge “Nel corso del suo intervento il procuratore generale egiziano ha ribadito la ferma volontà del suo Paese e del suo ufficio di arrivare a individuare i responsabili dei fatti”. Cosa significa? Possiamo considerarla davvero un’apertura? Non sembrerebbe, perché rileggendo tra le righe il significato delle parole del Procuratore Elsawy non si tratta solo di un’orgogliosa affermazione di un principio di reciprocità fra Paesi sovrani.
Attenzione: la magistratura egiziana non ha chiesto di acquisire dall’Italia elementi utili a perseguire nel proprio Paese gli agenti segreti incriminati, ma ha reclamato elementi sulle attività di Giulio in Egitto. Strano, visto che tale attività è rappresentata dalla ricerca che a Giulio era stata assegnata dall’Università di Cambridge. Quindi, cosa potrebbero dire le autorità italiane a tal proposito?
Non sarebbe peregrina a questo punto l’ipotesi che in realtà i magistrati egiziani puntino (forse giustamente) a dimostrare che le responsabilità vere debbono essere cercate oltremanica. Così si comprende anche l’ulteriore richiamo, contenuto nel comunicato, su “l’indipendenza del sistema giudiziario egiziano, che non è influenzato da quello che esce sui media“.
Quella oscura ricerca:
In Egitto, Giulio conduceva una ricerca assegnatagli dall’Università di Cambridge sul sindacato degli ambulanti egiziani. Subito dopo la scoperta del cadavere di Giulio si cercò addirittura di farlo passare come un fatto accidentale: un incidente stradale, per precisione. Ma questa versione si sgretolò subito dopo l’esame autoptico il quale evidenziò che le lesioni sul corpo erano inequivocabili segni di tortura. Smentite in maniera così clamorosa, le autorità egiziane cominciarono a collaborare con i magistrati romani nell’indagine per l’omicidio, ma col contagocce, rivelando solo a distanza di tempo inediti elementi investigativi.
Un’autopsia frettolosa:
Duecentocinquanta pagine di dati, contro una dozzina di cartelle infarcite di constatazioni generiche, nemmeno tradotte in inglese o italiano: tanto pesa la perizia medico legale svolta a Roma dal professor Vittorio Fineschi rispetto a quella fatta al Cairo. Con la conferma che Giulio è stato torturato “professionalmente” per cinque o sei giorni, mentre una relazione egiziana non traeva alcuna conclusione e nemmeno nominava mai la parola “tortura”, per lasciare volutamente aperto un ventaglio di ipotesi: esattamente quelle su cui si è via via esercitato il regime egiziano nel tentativo maldestro di sottrarsi alle proprie responsabilità, dall’incidente stradale fino al pestaggio.
La macabra messinscena: Gli assassini sono cinque, tutti uccisi dalla polizia egiziana:
Ci sarebbe stato un conflitto a fuoco con due poliziotti e, la banda degli assassini, era stata neutralizzata. Il caso Regeni, quindi, secondo le autorità egiziane, poteva essere archiviato: i cinque criminali uccisi in un furgone, per legittima difesa dalla polizia, avevano a casa il passaporto di Giulio Regeni. Più chiaro di così! Ma, due più due fa quattro, come si suole dire. E una volta tanto a rifare i conti era intervenuta la procura egiziana, evidenziando come il racconto degli agenti fosse completamente falso: l’assenza di tracce di sangue all’interno del pulmino su cui vennero ritrovati i cadaveri dei cinque morti ammazzati, infatti, escludeva evidentemente che vi fosse mai stato un conflitto a fuoco. Sul fatto che si sia trattato di un maldestro tentativo di chiudere la vicenda in modo sbrigativo non c’è dubbio.
Giulio arrestato dalla polizia?
Altro colpo di scena: “Giulio Regeni era stato arrestato dalla polizia prima di scomparire”. A riferirlo erano state fonti interne della polizia e dei servizi segreti egiziani alla Reuters. Un’ammissione forte, sottoscritta da tre agenti di polizia e tre operatori dei servizi segreti, che andava a demolire le versioni fino ad allora fornite dall’apparato di sicurezza del Cairo. Il ricercatore italiano, dunque, sarebbe stato portato via dai militari. Ma subito, il responsabile della comunicazione della sicurezza interna, smentì categoricamente dicendo: “Non c’è mai stato alcun legame tra Regeni e la polizia o i servizi segreti. Non è mai stato tenuto in nessun commissariato. L’unico momento in cui è entrato in contatto con la polizia è stato quando gli ufficiali hanno timbrato il suo passaporto per l’ingresso in Egitto”. E ancora: “se avessimo avuto di sospetti sulla sua attività la soluzione più semplice sarebbe stata la sua espulsione”.
Il girone dei traditori:
Lo sappiamo, non sempre gli amici sono così amici e – come ebbe modo di dire pubblicamente l’avvocato della famiglia – “per paura o per varie forme di meschinità molti amici egiziani di Giulio lo hanno tradito o venduto”. Uno di questi amici traditori, secondo l’analisi elaborata dagli investigatori italiani, potrebbe avere un nome: Noura Wahby, egiziana e compagna di studi di Giulio a Cambridge. Fu lei a lanciare l’allarme su Twitter quel 25 gennaio, ad appena cinque ore dalla scomparsa. Però anche qui c’è qualcosa che non torna: il 13 ottobre, quando Giulio per la prima volta incontrò il capo del sindacato degli ambulanti (che poi a sua volta lo tradì consegnandolo nelle mani dei carnefici), Noura fece una telefonata. Durata: meno di trenta secondi e la persona contattata chiamò il quartier generale della National security. Una coincidenza? Non proprio, perché la stessa cosa accadde una quindicina di volte. In alcuni casi fu l’uomo – il destinatario degli squilli – a cercare Noura e lei subito dopo a telefonare a Giulio.
Arrivano gli americani con tanto di prove!
“Giulio Regeni è stato ucciso dai servizi di sicurezza egiziani, o da gruppi affiliati. Questo è un fatto di cui il governo americano è assolutamente sicuro, e ne possiede le prove. Vista la stretta collaborazione tra i nostri apparati di intelligence e i vostri, sarei molto sorpreso se non avessimo informato i colleghi italiani di quanto sapevamo”. La fonte che fa questa rivelazione ha lavorato per l’amministrazione Usa, e dice di parlare per conoscenza diretta dei fatti. L’ordine di colpire Regeni sarebbe “venuto dall’alto”. C’è poi una seconda fonte del settore d’intelligence convinta che Regeni sia stato vittima di una «turf war» fra gli apparati egiziani, in sostanza una guerra interna tra i vari servizi di sicurezza. In questo quadro, la morte di Giulio sarebbe stata usata da qualcuno per «scoring points», cioè per segnare punti a danno dei suoi avversari. Il governo degli Stati Uniti aveva ottenuto le prove “humint” di questa verità, cioè intelligence umana. In altre parole, rivelazioni ricevute da informatori interni agli apparati egiziani, considerati credibili e affidabili. Non si esclude, però, che esistano anche conferme “sigint”, cioè la signal intelligence che si fa con le intercettazioni: «Non abbiamo la foto dei colpevoli, ma sappiamo che sono stati i servizi di sicurezza o i loro affiliati. In Egitto ci sono diversi apparati che si occupano di questo settore, e per simili operazioni possono fare ricorso a gruppi esterni, perché non sono direttamente riconducibili alle strutture ufficiali».
L’Università di Cambridge e i suoi non chiarissimi professori:
“Chiarissimo professore” si sa, è l’appellativo riservato agli accademici, ma all’Università di Cambridge, a quanto pare, i professori hanno dimostrato poca voglia di parlare e di chiarire, sebbene la vicenda di Giulio Regeni ha avuto inizio proprio tra le aule di quell’ateneo britannico.
In particolare, l’attenzione è stata posta su due figure già note alla procura di Roma, che avrebbero assunto un ruolo centrale nella storia. La prima è il tutor di Regeni a Cambridge, la professoressa Maha Abdelrahaman, che ha firmato una dichiarazione di non pericolosità per le ricerche che il suo studente avrebbe dovuto svolgere al Cairo per la tesi di dottorato. La seconda è il docente della British University del Cairo, Gennaro Gervasio, che Regeni avrebbe dovuto incontrare poco prima della sua scomparsa e col quale stabilì il suo ultimo contatto telefonico.
La professoressa Abdelrahaman, titolare di una cattedra a Cambridge, è un’esperta di movimenti politici e sociali d’opposizione, diritti umani e sindacati. Grazie alle sue nozioni accademiche, avrebbe dovuto essere era a conoscenza della pericolosità in cui sarebbe potuto andare incontro Regeni al Cario. Tuttavia, fu lei a dare il via libera al ricercatore per svolgere i suoi studi sotto il regime di Abdel Fattah al Sisi. Per la procura di Roma, la professoressa non avrebbe fornito risposte esaurienti e non avrebbe offerto una collaborazione totale ai titolari dell’indagine sulla morte di Giulio. S’è rifiutata di consegnare il suo telefono e il suo computer ed ha affermato che gli scambi d’informazioni con Regeni sarebbero stati “sporadici”. Dal pc del ricercatore, invece, s’è scoperto che i contatti erano frequenti e regolari. Sui comportamenti della professoressa, l’Università di Cambridge è intervenuta con un comunicato ufficiale datato 4 agosto 2016. “Ci risulta che abbia risposto agli investigatori italiani in due occasioni: la prima, durante il funerale di Giulio, quando fu avvicinata per un interrogatorio immediato. Nonostante le penosissime circostanze, la professoressa ha risposto alle domande per un’ora e mezza. I magistrati italiani sono poi andati a Cambridge il giorno della commemorazione. In quell’occasione, Maha ha risposto con completezza a ulteriori domande”.
Ma che fa questa Università? Una notizia sorprendente la fornisce il generale Leonardo Tricarico, già capo dello Stato maggiore dell’Aeronautica e presidente della Fondazione Icsa per l’analisi strategica e d’Intelligence. Secondo Tricarico “nel 2016, pochi mesi dopo la tragedia di Regeni, l’Università di Cambridge ha provato a ingaggiare un altro studente italiano e a mandarlo al Cairo per svolgere inchieste analoghe a quelle di cui s’occupava Giulio. In altre parole, gli inglesi ci hanno provato di nuovo. Perché? Qual è il vero obiettivo di quell’Università? E’ necessario sapere e capire chi c’è dietro questi incarichi e che cosa si muove sotto il paravento della ricerca. Questo è un aspetto totalmente trascurato in quel gigantesco buco nero che è il sequestro, le torture e poi il ritrovamento del cadavere dello studente friulano. Occorre indagare in questa direzione. Anche gli stessi genitori, che vogliono verità e giustizia, devono andare a guardare qui. Sono certo che, da Cambridge, passi un pezzo importante della storia”.
Veniamo all’altro professore Gennaro Gervasio, napoletano, si trova al Cairo da vent’anni. Insegna nella sede egiziana della British University ed era tra i tutor di Regeni per le ricerche che lo studente italiano stava svolgendo in Egitto per conto dell’Università di Cambridge. Secondo quanto si apprende dalla stampa il professore non ha mai voluto spiegare il suo ruolo neppure nei giorni successivi al ritrovamento del cadavere di Regeni. Si presume che anche lui, come la professoressa Abdelrahaman, o forse a maggior ragione, avrebbe dovuto conoscere i rischi della missione del ricercatore friulano.
Può valere l’ipotesi, formulata dall’Intelligence italiana, secondo cui le ricerche dello studente italiano potessero servire alla Military Intelligence, i servizi di sicurezza britannici? Oppure è plausibile il dubbio che dal punto di vista geopolitico il Regno Unito avrebbe avuto interesse a creare un caso diplomatico tra Italia ed Egitto per alterare i rapporti commerciali e le rispettive influenze sulla crisi libica? Gervasio avrebbe rivelato alla magistratura che fu Regeni a cercarlo telefonicamente per chiedergli un incontro e aggiornarlo sulle sue ricerche. “Il 24 gennaio, Giulio mi aveva chiesto di incontrarci”, sono le parole che il docente napoletano avrebbe riferito agli investigatori e che sono state riportate dal quotidiano di Napoli “Il Mattino”. “Era entusiasta di come avanzava il suo lavoro di ricerca e voleva confrontarsi con me. Al messaggio del giorno successivo delle 13,53 non mi sentii di dirgli ancora una volta che non potevo incontrarlo, e rinviai la decisione d’incontrarci nel tardo pomeriggio. Pensai infatti di unire la visita che volevo fare a un mio amico, per il compleanno, con l’incontro con Giulio, che avevo già conosciuto in un’altra occasione”.
Secondo una ricostruzione certa, alle 19,38 del 25 gennaio, Gervasio avrebbe scritto un messaggio a Regeni per fissare l’incontro di lì a 25 minuti più tardi. Giulio ha spento il suo pc alle 19,41 ed è uscito di casa. All’appuntamento con Gervasio, però, non è mai arrivato. Alle 20,18, il professore ha provato a telefonate a Regeni. Nessuna risposta. Così come alle 20,23 e alle 20,25. Da quel momento, il telefono dello studente, che non sarà mai ritrovato, ha smesso di squillare. Dopo nemmeno un’ora dal mancato incontro all’appuntamento, alle 22,30, Gervasio ha contattato l’ambasciatore italiano al Cairo, che ha lanciato l’allarme della scomparsa di Regeni. Strano un simile allarme dopo un così breve lasso di tempo! Il cadavere è stato ritrovato nove giorni dopo dalla scomparsa in una strada periferica della capitale egiziana.
Fonti dell’Intelligence hanno rivelato al Mattino di Napoli che il corpo di Regeni è stato “volutamente fatto trovare col deliberato obiettivo di far saltare i rapporti diplomatici tra Egitto e Italia”. Tra silenzi, segreti e nuove rivelazioni, il caso Regeni s’infittisce. E dal Cairo, passando per l’Italia, torna nel Regno Unito. Lì dove la sorella di Giulio, Irene, aveva esposto lo striscione giallo di Amnesty International con la scritta “Verità per Giulio Regeni” davanti all’Università di Cambridge. L’ateneo che secondo Paola, la madre di Giulio, deve “rompere il silenzio”.
Quei dubbi ancora irrisolti
E intanto i dubbi restano irrisolti:
1. Giulio è uno studente, ed è stato ucciso, ma è anche stato torturato. A che prò, dato che stava semplicemente conducendo una ricerca per la tesi? Cosa volevano sapere da lui i suoi sequestratori? Non certo dell’oggetto della sua tesi: il capo del sindacato era un informatore della polizia, quindi le autorità avevano già un’autorevole ed efficace fonte da cui attingere informazioni.
2. Dopo un anno un anno dalla morte, spunta fuori il leader dei sindacalisti degli ambulanti – Mohammed Abdallah cioè il contatto di Giulio – che racconta di essere stato lui a segnalare alla polizia che il giovane era troppo invadente per essere uno studente e basta;
3. Secondo la versione ufficiale Mohammed avrebbe segnalato Giulio alla polizia, il 7 gennaio 2016 e dopo quella data le autorità egiziane avrebbero monitorato Giulio per soli tre giorni. Non è vero, perché successivamente spuntò fuori un video, ripreso all’insaputa di Giulio, nel quale il capo degli ambulanti aveva tentato di far parlare in confidenza il ragazzo. Le riprese furono fatte con strumenti forniti a Mohammed dalla polizia egiziana, prima della data del 7 gennaio 2016 il che significa che la denuncia del sindacalista era precedente.
4. Il capo degli ambulanti chiedeva soldi a Giulio, per aiutarlo nella ricerca. Ma come mai per una tesi di dottorato si investe tanto? Chi la finanziava? O meglio, chi aveva interesse a finanziarla? Regeni prospettò ad Abdallah la possibilità di presentare un progetto per un finanziamento di 10mila sterline a favore delle iniziative degli ambulanti. Chi ha garantiva a Giulio una tale possibilità. La sua tutor, la professoressa Maha Abderahman, ne sapeva qualcosa? E poi, 10 mila sterline per una tesi universitaria
5. E perché massacrare un ragazzo per impedirgli una ricerca universitaria?
6. Perché i professori di Cambridge tacciono? Niente di ufficiale sul lavoro del ricercatore. Peraltro, una fonte accademica citata dal Times di Londra in forma anonima da Cambridge, ha ammesso che la professoressa Maha Abderahman, tutor di Giulio in Inghilterra indicata attualmente “in anno sabbatico”, si sia fatta mandare le domande dei media per un’intervista e abbia poi deciso di non rispondere.
7. A che scopo la messa in scena – per la quale due poliziotti sono stati indagati – che portò all’uccisione di cinque persone in Egitto, nel tentativo di farle passare per gli assassini di Giulio? L’assenza di tracce di sangue all’interno del pulmino su cui vennero ritrovati i cadaveri dei cinque morti ammazzati fa escludere che vi sia mai stato un conflitto a fuoco, come invece riportava il rapporto di polizia.
8. Giulio passò davanti alle telecamere di sorveglianza nella stazione della metropolitana nella zona di Dokki. Gli spezzoni video sarebbero stati soppressi e l’Egitto afferma di non avere i mezzi per procurarsi il programma necessario a recuperarli.
Questa indagine è ancora tutta da fare, per la memoria di Giulio, per il cuore dei suoi genitori, ma anche per l’orgoglio italiano. Se no: povero Giulio, povera Italia.

Ugo Terracciano Presidente AICIS