(Ugo Terracciano*)  

Ci sono comunità per il recupero dei tossicodipendenti, ma non per le patologie caratteriali pericolose, come quelle che possono emergere nei casi di stalking. Uno stalker va curato per evitare che il suo delirio diventi incontrollato. Perché, piuttosto che gli strumenti penali, oltre al braccialetto elettronico, il giudice non può essere abilitato – a fronte di una perizia psicologica o psichiatrica – a restringere la persona in una comunità terapeutica dove possa essere controllato ed aiutato a recedere dalla malattia?

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Di certo il narcisismo è la cifra del nostro tempo e tutto il resto è conseguenza. A volte, una tragica conseguenza. A quello dilagante intorno a noi e sui social ci siamo oramai assuefatti ed è così che, di fronte al narcisista patologico, poi non si sa bene cosa fare. Eppure, di danni il narciso patologico ne fa parecchi e di vittime anche di più. Non a caso, dietro ogni femminicidio ne scorgiamo sempre l’ombra sinistra. L’ultima sciagura è quella di Vanessa Zappalà uccisa dal suo ex fidanzato con sette colpi di pistola. Una vita stroncata quella della ragazza, un delirio strozzato dalla corda con cui si è impiccato quello di Antonio Sciuto, l’ex di lei. Povera Vanessa, povero assassino. Non per attenuare le sue colpe perché se fosse vivo meriterebbe sette ergastoli, uno per ogni colpo che ha sparato. Ma, ora che nei loro occhi è calato il buio, tardivamente si sono accese le solite luci dei media, con accuse, commenti più o meno approfonditi (soprattutto meno), accuse indiscriminate e ottime ricette di ciò che si sarebbe dovuto fare e non si è fatto. Legittime considerazioni, ci mancherebbe, ma sono come un disco rotto che ritorna a suonare la stessa sinfonia dopo ogni simile tragedia.

La ragazza si sentiva perseguitata ed aveva presentato più di una denuncia. Antonio nei mesi scorsi era stato arrestato in flagranza, mentre la seguiva ossessivamente fino alla sua abitazione di Trecastagni. E’ evidente che nel caso di specie, arrestandolo, lo Stato era stato solerte nell’intervenire e nel coglierlo sul fatto.

E’ questione di procedura:

Dopo l’arresto il giudice per le indagini preliminari ha disatteso la richiesta di arresti domiciliari a carico dello Sciuto. Allo stato pareva sufficiente l’obbligo di distanziamento. Così, dopo il fattaccio, apriti cielo: tutti in coro a dire che se la richiesta fosse stata accolta la 26enne sarebbe stata messa al sicuro. Ma ne siamo proprio così certi? Evidentemente il meccanismo degli arresti domiciliari non è molto chiaro nella mente dei commentatori: non hai un gendarme sotto casa, hai la prescrizione di non uscire e se ti allontani vai in prigione. A patto che ti scoprano, però. Vediamo un po’: il 27 agosto a Medesano, in provincia di Parma, un 20enne ristretto agli arresti domiciliari esce per andare al bar con gli amici (era una persona violenta agli arresti per aver aggredito i carabinieri); il 23 luglio, a Forlì, un 29enne infrangendo gli obblighi degli arresti domiciliari non ha resistito alla tentazione di godersi la grande festa cittadina, il “mercoledì del cuore”: aperitivi, cene all’aperto, musica e attrazioni. La sfortuna per lui ha voluto che, rincasando, il suo amico alla guida dell’auto ha imprudentemente attirato l’attenzione della polizia con una manovra spericolata. Ancora più sfortunato un 25enne pisano che, dopo aver abbandonato l’abitazione dove era ristretto, circolando sull’Aurelia è incappato in un posto di controllo della stradale. Sempre nel mese di luglio, a Salsomaggiore, un 30enne è stato sorpreso a rubare all’interno di una concessionaria auto, avrebbe dovuto essere a casa, dov’era ristretto agli arresti. In aprile, carabinieri della Compagnia di Novafeltria hanno messo le manette a un 45enne, pregiudicato, residente a Verucchio: era stato arrestato la prima volta a novembre del 2019 per aver rapinato una persona a Rimini, quindi, dopo aver scontato un periodo in carcere era stato sottoposto agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Verucchio, appunto. Per ben due volte, nel giugno 2020 ed a marzo scorso, era evaso dagli arresti domiciliari, venendo poi rintracciato ed arrestato dai Carabinieri.

Sono solo gli episodi degli ultimi mesi e, per puro spirito misericordioso ci fermiamo qui anche se la lista sarebbe ancora molto lunga.

Ecco, detto questo, c’è ancora chi può sostenere che gli arresti domiciliari avrebbero contenuto la furia omicida di Antonio Sciuto e messo al riparo la povera Vanessa? Che timore avrebbe potuto avere delle sanzioni, uno che aveva già deciso di farla finita (come poi ha fatto). C’è il braccialetto elettronico, è stato detto. Sì, però lo strumento richiede un monitoraggio per ora molto difficoltoso e soprattutto la capacità di un immediato intervento in caso di allarme: cose purtroppo abbastanza remote, allo stato attuale.

Una risposta giurisdizionale:

Sul caso dei Vanessa è stato intervistato il capo dei Gip di Catania, il quale ha detto: “non ci sono stati vizi nella procedura”, il giudice competente nel respingere l’istanza di arresti domiciliari si è attenuto a quanto previsto dalla legge. E cosa altro avrebbe potuto dire il capo dei Gip? Lui è un “funzionario” della procedura e la procedura è stata rispettata, segno che le regole processuali non risolvono sempre tutte le emergenze umane. Poi ha avuto la sfortuna di aggiungere qualche dettaglio e, per descrivere una triste realtà, ha usato una frase dal suono stonato, il che conferma che non basta una laurea in giurisprudenza per comprendere che esistono anche le tecniche della programmazione neurolinguistica nella comunicazione giudiziaria. Ha detto che “la donna non riesce a tenere una condotta univoca” nel senso che Vanessa ed Antonio avevano litigato e si erano riappacificati. Sul piano delle relazioni affettive (soprattutto quelle più complicate) è una cosa che succede, sul piano delle misure legali una riappacificazione fa venir meno i presupposti dell’agire. Un ragionamento difficile da far passare in un talk show televisivo, dove non c’è proprio il tempo per far comprendere due elementi concettualmente piuttosto tortuosi: il primo è che il narcisista patologico è molto seducente e, come si legge nella letteratura psicologica “l’ambiguità della comunicazione narcisistica è tale da offrire infiniti spunti perché la vittima la interpreti secondo il proprio sistema di valori e le proprie aspettative” (Laura Marchi, 2019); il secondo punto è che in una relazione, sia pure burrascosa, può anche nascere il tentativo di riprovare, confidando nel fatto che l’altro possa alla fine cambiare (cosa che sistematicamente poi non accade). Ma questo, avendo a che fare con le dinamiche psicologiche relazionali, fatica a circoscriversi nella sfera del diritto nella quale molto più semplicemente se manca la vittima viene meno alche l’offender.

Diritto penale e protezione della vittima:

Non è il caso di scomodare la dottrina dei giuristi per non correre il rischio di approdare ad astrazioni che conducono lontano. La questione è che, tra una visione “formale” che considera il reato semplicemente in quanto “fatto che il legislatore punisce con una pena” ed una visione “sostanziale” che considera il reato come “un fatto che lede gravemente l’ordine etico”, quello che resta è che i giudici si occupano di responsabilità intorno a fatti. E l’omicidio è un fatto che per sua natura implica che nel momento del giudizio la vittima non ci sia più. Nel caso di Antonio e Vanessa, però, prima dell’omicidio, quale era il fatto? Lo stalking, per il quale Antonio era stato arrestato, ma non ancora processato. Era quello il campo di accertamento da parte del giudice. E’ vero, esistono misure cautelari per evitare la reiterazione di reati della stessa indole, cioè nel nostro caso per evitare lo stalking ma non un omicidio la cui ipotesi all’epoca si collocava al di fuori del radar del giudicante. Era prevedibile che Antonio scaricasse il caricatore della pistola sul capo della povera Vanessa? Col senno di poi è facile giungere a conclusioni, comprese quelle meno prevedibili ex ante.

A proposito, come mai Antonio deteneva una pistola?

Non stiamo qui a fare la difesa d’ufficio dei giudici, ma piuttosto a significare che davanti a patologie come quelle di Antonio il diritto penale (quello del fatto e della relativa pena) ha spesso le armi spuntate. Estremizzando vi ricordate il caso di Angelo Izzo, uno dei mostri del Circeo? Nel dicembre 2004 ottenne la semilibertà per andare a lavorare in una cooperativa: la condotta carceraria faceva pensare ad un ravvedimento e l’ordinamento carcerario tende a favorire la rieducazione in questi casi. Appena ha potuto ha ucciso due donne, Maria Carmela e Valentina Maiorano. Un delinquente della peggiore specie Izzo, ma soprattutto un pazzo omicida e la pazzia come il suo caso dimostra non può essere curata solo con il carcere.

Antonio Sciuto, è evidente, era un narcisista patologico: Vanessa nella sua mente era cosa sua, forse nemmeno tanto per lei, ma forse perché perderla rappresentava una inaccettabile sconfitta per il suo ego. Nella scritta di addio vergata sulla parete vicina al luogo nel quale Antonio si è impiccato, Vanessa non è stata nemmeno citata: lui ha chiesto perdono solo ai suoi genitori e ai suoi due figli.

In psicopatologia, all’interno del Manuale Diagnostico Statistico (DSM-5), il quadro narcisistico è indicato tra i disturbi di personalità.  In fase acuta, un disturbo che emerge con tutta la sua forza per cui il soggetto diventa più esigente, violento, geloso e distante. Non è insolito che il narcisista utilizzi violenza verbale e/o fisica. A livello verbale alterna momenti di dolcezza a momenti di aggressività e sono proprio queste oscillazioni a rendere ancora più dipendente il partner, che si destabilizza e non sa più come comportarsi. Esita a perdonarlo e poi lo perdona pensando che cambierà, poi deluso deve ricredersi.

La domanda è: un soggetto così può diventare pericoloso fino al punto di uccidere? Basta vedere i numerosi casi di “femminicidio” e “uxuricidio” accaduti negli ultimi anni per dissipare ogni dubbio in proposito, avendo però l’accortezza di notare che, spesso, all’uccisione consegue anche il suicidio (consumato o tentato) dell’omicida stesso.

Quindi, abbiamo un pericolo legato ad un “disturbo della personalità” che può diventare distruttivo e autodistruttivo.

I giuristi lo chiamerebbero “pericolo presunto”, di quelli che purtroppo si si scoprono sempre a cose fatte. Ed è per questo che un sistema deputato a decidere su eventi, su accadimenti specifici, come il sistema penale, è inadatto ad evitare che un problema caratteriale si trasformi in una malattia mentale distruttiva ed autodistruttiva vera e propria anche quando si siano manifestati i prodromi del disturbo.

Davanti ad una malattia mentale – molto difficile da diagnosticare nel narcisista – quali strumenti di legge abbiamo? Non certo gli arresti domiciliari o il carcere (i primi inefficienti il secondo transitorio) ma, al limite, la cura coattiva consentita (dopo l’approvazione della legge Basaglia del 1978) solo in casi di manifesta necessità e quando manca la volontà del paziente di curarsi. Un ricovero coattivo che dura al massimo sette giorni. Ma nel caso di Vanessa, come negli altri casi, il delirio si è manifestato in tutta la sua follia solo nell’atto finale, mentre prima si pensava, semplicemente (si fa per dire), ad uomo afflitto da un sentimento un po’ malato.

Nella sua originaria formulazione nel Testo Unico delle leggi di P.S. il malato di mente era annoverato nella categoria delle “persone pericolose”, anzi, doppiamente pericolose: per sé stesse e per gli altri. Proprio come, alla fine, pericoloso per sé e per Vanessa si è rivelato Antonio Sciuto. Nel TULPS, per neutralizzare nella sua pericolosità il malato di mente era prevista la possibilità di applicare nei suoi riguardi stringenti misure di prevenzione. Tutto questo non c’è più perché il malato di mente, ora, nel nostro ordinamento, è solo un paziente e la sua pericolosità è un fatto secondario, fino a quando non succede l’irreparabile, naturalmente.

Ci sono comunità per il recupero dei tossicodipendenti, ma non per le patologie caratteriali pericolose, come quelle che possono emergere nei casi di stalking. Uno stalker va curato per evitare che il suo delirio diventi incontrollato. Perché, piuttosto che gli strumenti penali, oltre al braccialetto elettronico, il giudice non può essere abilitato – a fronte di una perizia psicologica o psichiatrica – a restringere la persona in una comunità terapeutica dove possa essere controllato ed aiutato a recedere dalla malattia?

*Ugo Terracciano, Presidente Nazionale AICIS – ugo.terracciano@criminologiaicis.it

 

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