(AICIS CRIMINOLOGI

Non è colpevole fino a pronuncia definitiva il 46enne milanese M.V, imputato di stalking ed omicidio per la morte, quattro anni fa, della bella stilista Carlotta Benusiglio. E’ un processo appena iniziato che, stando all’esito delle prime indagini, sembrava essere estinto sul nascere archiviato come caso di “suicidio”, un’ipotesi alla quale però la famiglia non si è mai arresa. Quindi, altre richieste, altre indagini e soprattutto una nuova autopsia che – sorpresa – non ha affatto escluso l’azione di terzi. Inutile dire che rispetto alla morte per impiccagione volontaria lo scenario cambia eccome.

Cosa c’era che non tornava? Che cosa ha indotto gli inquirenti a concentrare la propria attenzione su M.V.?

Nessun apparente motivo: La prima considerazione, quella più generica, riguarda il fatto che la ragazza non avesse nessun apparente motivo per togliersi la vita, elemento piuttosto debole poiché non è infrequente che chi compie gesti così estremi lo faccia, più spesso di quanto si possa credere, sorprendendo le persone care assolutamente ignare del disagio interiore che attanagliava la vittima. La cosa strana, però, se davvero la ragazza si fosse uccisa, sarebbe stata la decisione di farlo piuttosto che tra le mura di casa nel parco sul quale si affacciava il suo appartamento, un luogo molto vicino alla sua dimora e soprattutto pubblico. Si poteva pensare ad un suicidio dimostrativo, quindi? Può essere; ma per dimostrare che cosa e a chi? “E’ univocamente considerato” – scrive lo psichiatra Ennio Piantato – “che nel comportamento suicidario coesistano due tendenze: una potrebbe essere l’impulso all’autodistruzione, la seconda l’esigenza a far sì che gli altri mostrino premure e amore e agiscano di conseguenza” (E. Piantato, “Alcune considerazioni in tema di suicidio e tentato suicidio”, Working Paper of Public Health nr. 11/2015). In questo caso, però, il mezzo usato – l’impiccagione – per la sua letalità lascia poco spazio all’intenzione di suscitare attenzioni amorevoli.

I riscontri investigativi: A parte le considerazioni generiche, quello che conta per escludere la morte autoinflitta e ad avvalorare l’ipotesi di omicidio, sono i riscontri investigativi. La ragazza fu trovata impiccata con la sua stessa sciarpa ad un albero nel parco. Ma si trattava di una impiccagione “parziale”: si definisce così il caso – come quello in esame – in cui la vittima si appende col cappio alla gola, ma i suoi piedi toccano per terra. Difficile che in una condizione simile non prevalga in extremis l’istinto di autoconservazione.

Si tenga presente però, che parallelamente al fattore asfittico spesso nell’impiccamento entrano in gioco anche altri fattori di tipo circolatorio e nervoso. La pressione del laccio determina quasi sempre una occlusione più o meno completa delle vene giugulari e delle arterie carotidi. Questo, causa il mancato afflusso di sangue al capo ed il mancato deflusso, determina nell’impiccato una rapida perdita di conoscenza. Per questo motivo è piuttosto normale che nell’impiccamento cosiddetto incompleto, la persona non compia nessuna estrema azione connaturata all’istinto di sopravvivenza.

La medicina legale distingue tra “impiccamento tipico” ed “impiccamento atipico”, “impiccamento completo” ed “impiccamento incompleto”. L’impiccamento tipico è caratterizzato dal fatto che il pieno dell’ansa della corda, corrisponde alla regione anteriore del collo, ed il nodo alla nuca. Nell’impiccamento atipico i predetti rapporti di posizione risultano diversamente variati. Si dice completo l’impiccamento in cui il corpo è completamente sospeso, mentre si dice incompleto quello in cui il corpo viene trovato in parte sostenuto da un appoggio. Perché nell’impiccamento si verifichi la morte, non è necessario che la sospensione del corpo sia completa, ma basta che sul laccio gravi il peso sufficiente a determinare la costrizione delle vie aeree. Di massima, si calcola sufficiente un terzo del peso corporeo.

Nuove indagini: la lente della Procura sul compagno della vittima: I riscontri, logicamente, partono sempre dall’ultima persona che ha visto la vittima in vita. Quindi – nel caso di Carlotta – i riscontri inevitabilmente partono dal suo compagno (o ex compagno) M.V., ora a processo con rito abbreviato per rispondere di stalking e omicidio volontario. Stando a quanto emerso il 46enne, la sera prima della tragedia, era stato in compagnia di Carlotta: i due erano usciti insieme per immergersi nella “movida” milanese dei “navigli” rientrando alle due della notte. Sarebbe poi scattato un litigio: situazione, a detta della sorella della vittima, piuttosto frequente nel rapporto tra i due. La ragazza in epoca precedente si sarebbe anche fotografata a riprova delle percosse subite e avrebbe fatto ricorso alle cure dei medici. Lui invece ha sempre negato. In particolare, la sorella di Carlotta, Giorgia Benusiglio, avrebbe riferito che il giorno della scoperta del cadavere, entrata nell’appartamento della vittima, aveva trovato la musica ancora ad alto volume e un discreto disordine “come se avessero litigato”. La lite, secondo l’accusa, sarebbe proseguita nella piazza, dove Carlotta sarebbe stata colpita. Solo successivamente sarebbe stato inscenato il suicidio.

Niente arresto e guerra delle consulenze: l’indagato non è stato assoggettato a custodia cautelare: secondo per il Tribunale del riesame, e per la Cassazione, il lungo tempo passato non era più compatibile con quel rischio di alterazione delle prove che giustifica la carcerazione preventiva. Il GUP nel rinviare l’uomo a giudizio ha anche disatteso la richiesta del pubblico ministero di procedere ad una nuova analisi istologica e istochimica sui reperti biologici prelevati sulla vittima. L’esame sarebbe servito ad accertare la “vitalità” delle lesioni sul collo di Carlotta. In genere alla costrizione delle vie aeree si associa, per la trazione verticale esercitata dal peso del corpo, uno scorrimento dell’ansa verso l’alto, cosicché si produce uno scorrimento in alto ed all’indietro dell’osso ioide e, con questo, della base della lingua che viene così a tamponare il faringe ostacolando la penetrazione dell’aria nella laringe. A qualsiasi altezza sia collocata sul collo, l’ansa finisce sempre per esercitare la sua compressione al livello tra la laringe e l’osso ioide. Questa collocazione finale del cappio è facilitata dall’estrema facilità con cui si sposta la cute sui tessuti sottostanti. L’esame della cute è importante al fine di escludere l’ipotesi che non ci si trovi di fronte ad un caso di suicidio per impiccagione, ma di una simulazione messa in atto con la persona già cadavere, magari uccisa mediante strangolamento. Sulla cute del collo, raramente la sede del solco è ubicata all’altezza inferiore: nei rarissimi casi in cui succede, la cute, primitivamente spostata in alto dalla trazione dell’ansa, col cessare della sospensione (cioè quando il cadavere viene rimosso immediatamente), torna nella sua posizione originaria.

Nei casi in cui la sospensione dura a lungo, oppure anche se il cadavere venga rimosso il laccio resta stretto attorno al collo per più tempo, la cute, anche se primitivamente spostata, resta fissata nella sede dove ha agito il laccio. Particolare attenzione deve essere dedicata al solco che rappresenta il segno locale della compressione sulla cute del collo. Il solco può essere molle o duro. Si dice molle, il solco non escoriato e poco profondo: l’impronta che ne residua – causa l’essicamento post-mortale che conduce ad un aumento della consistenza locale – appare poco accentuata e di un colorito pallido, lievemente giallastro. Si dice invece duro, il solco la cui cute si manifesta più o meno profondamente escoriata: più intenso è l’essicamento, più accentuata risulterà la consistenza pergamenacea. La diversa intensità  del solco è influenzata dal peso corporeo e dalla durata della sospensione (per cui quando si intervenga in un luogo dove il presunto suicida è stato già rimosso e, nonostante il notevole peso corporeo il solco risulti “morbido” occorrerà approfondire particolarmente gli accertamenti).

Comunque, tornando al caso della povera Carlotta, il motivo del diniego dell’autorizzazione alle nuove analisi è che, secondo il giudice, i reperti biologici sarebbero oramai degradati non essendo quindi più utili per nuove indagini scientifiche.

C’è poi un’altra consulenza – quella informatica condotta dal dr. Andrea Barili – la quale giocherebbe a sfavore dell’imputato. Egli ha sempre negato di essere stato insieme a Carlotta nel parco di piazza Napoli la notte della morte della ragazza. L’analisi di alcuni video lo smentirebbe: in realtà dai fotogrammi recuperati dal consulente, appare che l’uomo lasciò il parco alle 4,42 della notte. Ancora una volta le telecamere non perdonano.

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