[Maria G. Giuliani] Ci sono due fatti di cronaca recenti che hanno attirato la mia curiosità sul fatto delle bandiere battenti diversa nazionalità rispetto alla proprietà delle navi. Una è la presunta nave da cui è stato sequestrato il carico che ha innescato l’enorme esplosione al porto di Beirut il 4 agosto scorso, l’altra riportata oggi 8 agosto 2020, sul versamento di carburante al largo delle isole Mauritius.

Il web, per quanto riguarda la vicenda di Beirut, si è concentrato sulle cause dell’esplosione e sulla speculazione sui materiali coinvolti. La mia “curiosità” invece – dato la mia mancanza di expertise in temi di esplosivistica e chimica, per cui un approfondimento sarebbe stato per me quasi una missione impossibile e francamente inutile, date le mie competenze – si è diretto su un altro versante. Mi ha interessato molto di più il dettaglio della nave russa battente bandiera moldava, in viaggio verso il Mozambico con un carico di fertilizzante. E, nel seguire questa pista, ho imparato cose che non conoscevo. Premetto: lungi da me affermare che queste “indagini” arrivino ad una conclusione probante: non sono dati accertati, ma una serie di collegamenti che ho trovato e che potrebbero raccontare una storia solo se verificate con mezzi di cui non dispongo. Le piste e le riflessioni che condivido in questo contributo sono, appunto, riflessioni generali che prendono solo spunto dalla recente cronaca. Sono riflessioni per cui il condizionale è d’obbligo e che non danno nulla per assodato, ma che fanno pensare.

Per prima cosa, ho iniziato a cercare rapporti commerciali tra Moldavia e Mozambico. E non ho trovato nessuna informazione. Questo ha spostato la mia attenzione quindi sulla questione della bandiera battuta, con una proprietà del natante di nazionalità diversa. A quanto risulta da alcuni articoli, si fa infatti risalire il carico che avrebbe innescato l’esplosione a Beirut ad un sequestro e una confisca dalla nave Rhosus, di proprietà di un armatore russo, ma con una bandiera moldava. Si indicano quella nave e quel carico perché, dagli atti, sembrano combaciare tonnellaggi e date. Nel leggere a proposito del sequestro (https://www.bbc.com/news/world-middle-east-53683082) si evince che la nave, che alcuni riportano anche come attraccata nel porto di Beirut per problemi tecnici, sia stata obbligata alla fonda perché non a norma per continuare la navigazione. All’epoca sembra che la questione sia stata parecchio complicata, tant’è vero che altre fonti (https://balkaninsight.com/2020/08/05/moldova-flagged-ship-suspected-of-carrying-beirut-blast-chemicals/) raccontano di una vicenda durata mesi, con un armatore che ha abbandonato carico ed equipaggio nel 2014, allo scadere della licenza di navigazione detenuta. Solo allora il carico è stato trasferito dalla nave al magazzino. Ma c’è la questione della bandiera. Scavando un po’ tra i link, si trova questo articolo: https://anticoruptie.md/en/investigations/economic/false-flags-of-moldova-azerbaijan-netherlands-track. Sembra, da questo articolo del 2016 (che affronta moltissime questioni) e da quello sopra citato, che la Moldavia abbia regole meno severe per quanto riguarda le condizioni di sicurezza e anzianità della flotta che registra sotto la propria bandiera. Questo lascia la facoltà ad armatori di altre nazionalità, sempre secondo le fonti citate, di poter poter continuare ad impiegare navi “anziane” che non rispetterebbero gli standard tecnici e di sicurezza per la navigazione – e non solo, visto che il secondo articolo riporta questo tipo di escamotage per quanto riguarda la copertura di traffici illeciti, arrivando addirittura a chiamarli “false flag” (non so se a sproposito, visto che in gergo questo designa operazioni di secret intelligence). Quello che sembra accertato è che nel 2015, a seguito di una serie di ispezioni e di ban, la Moldavia entra nella lista nera dei Memoranda of Understanding di Parigi (https://www.parismou.org/2015-performance-lists-paris-mou), una lista di “bandieraggi” che rispettano o meno le condizioni imposte di navigazione delle flotte, in base al numero delle “detenzioni” alla fonda imposte dopo le varie ispezioni.

Oggi invece si parla di una nave giapponese, a quanto pare battente bandiera panamense, che già dal 25 luglio scorso era incagliata al largo delle isole Mauritius e che iniziato a riversare carburante in mare. Anche qui, non voglio affermare che la bandiera di nazionalità diversa dalla proprietà del natante voglia per forza o con sicurezza indicare una pratica illecita o poco etica – non ne ho i mezzi, non ne ho le prove, non conosco le diverse razionali per cui si faccia e soprattutto non ne ho l’intenzione. E’ un discorso più generale, quello che vorrei affrontare.  Ma nell’andare a reperire informazioni sulla “bandiera panamense”, apprendo che ci sia una pratica che si chiama “flag of convenience” (https://en.m.wikipedia.org/wiki/Flag-of-convenience), che appunto autorizzerebbe a registrare molto velocemente e con costi solitamente molto modici, natanti con una proprietà di nazionalità estera. Panama permetterebbe, secondo il link, una registrazione anche online, con la possibilità di impiegare operai ed equipaggio straniero, con un risparmio sui costi. In più, sembrerebbe che gli armatori stranieri non debbano pagare tasse sul reddito derivante dalle dette navi.

Insomma, l’andare a cercare informazioni sulla bandiera battente mi ha fatto scoprire una prassi che, almeno dal punto di vista etico, è sicuramente molto discutibile anche se legale nei detti paesi. Da una prospettiva di garanzia di sicurezza generale, mi permetto di sollevare alcune domande. La prima è relativa ai natanti e alla loro gestione in ambito internazionale. I mezzi di trasporto possono “battere una bandiera” o essere immatricolati, nel caso delle vetture su strada, in un dato paese. Ma il mezzo di trasporto, sia esso per mare, per terra, o per cielo, come sottintende la definizione stessa, trasporta beni o persone e cioè è fatto per spostarsi. La sicurezza del mezzo deve garantire che, dovessero originarsi dei problemi tecnici in un’altra nazione, per lo meno non sia questa nazione a dover gestire le problematiche da essi derivanti, nè dal punto di vista del mezzo, nè dal punto di vista di ciò che trasporta. Sebbene non si possa affermare che questo sia il caso di ciò che è successo in Libano, mi chiedo: se fosse un caso del genere, come fa una nazione che affronta una guerra civile e quindi una crisi economica pesante a poter gestire da sola i costi di stoccaggio e smaltimento di un carico altamente problematico e di cui, magari, per leggi internazionali o nazionali sulle confische, non può disporre a pieno titolo? Questo lascerebbe dei gap di sicurezza potenzialmente molto rischiosi per la popolazione del detto paese. Poniamo anche il caso del versamento di carburante alle Mauritius. Sebbene anche qui non si possa dare per scontato che sia una vicenda ascrivibile alla pratica di bandieraggio di convenienza, se lo fosse, come si gestisce un danno ecologico di questa portata, quando la nazione che lo sostiene non dispone dei mezzi economici per poterlo bonificare? E come si previene? Chi ne dovrebbe essere responsabile? L’armatore o il paese di bandiera, che magari permette la navigazione di natanti che, tecnicamente parlando, avrebbero finito il proprio ciclo di esercizio? E come si gestiscono i creditori che avanzano pretese sul carico? Domande a cui si può dare risposta solo dopo un attenta valutazione delle normative giuridiche dei vari stati coinvolti negli incidenti e che magari richiedono il coinvolgimento di Tribunali con giurisdizione internazionale. Questo quindi richiederebbe dei tempi tecnici che poco si sposano con la tempestività che certi tipi di vicende necessitano.

Ma queste sono anche domande che dimostrano quanto siamo dipendenti, in materia di sicurezza, dall’etica che ogni stato e ogni singolo vuole garantire alla comunità internazionale. E quanto dovrebbe essere importante addivenire ad una normativa standardizzata perché si evitino delle pratiche che in uno stato sono legali, ma funzionano come una via per aggirare norme che sarebbero meno lecite in un altro stato. Pratiche che, potenzialmente, ledono le garanzie di sicurezza di tutti e che, potenzialmente, scoraggiano gli stati virtuosi dal coinvolgimento nelle politiche internazionali di ispezione e controllo. E che hanno conseguenze potenzialmente catastrofiche in termini umani e ambientali.

Maria G. Giuliani, Criminologo AICIS