(Ugo Terracciano*)  Sessanta coltellate in tutto (35 a lei e 25 a lui) per uccidere in maniera efferata i due sfortunati giovani di Lecce: lui promettente arbitro, lei impiegata dell’INPS con l’aspirazione di diventare un giorno magistrato. Poi c’è l’assassino: giovanissimo – 21 anni – studente a Scienze Infermieristiche, e il paradosso è che si tratta di una professione che sottenderebbe l’inclinazione di soccorrere chi soffre.

Sessanta coltellate vibrate senza un motivo, anzi sì: l’invidia per la felicità altrui. Per questo un 21 enne insignificante ha scaricato tutta la rabbia che covava dentro su due che hanno avuto l’unica sfortuna di averlo conosciuto essendo stati per qualche tempo suoi coinquilini. Se non vittime casuali, quasi, dunque. Secondo il procuratore De Castris, che dirige le indagini, addirittura l’omicidio sarebbe stato progettato a lungo e nei minimi dettagli, con la pianificazione anche di torture con cui infierire sulle vittime: l’assassino avrebbe predisposto il materiale che doveva servirgli per torturare le sue due vittime, tra cui delle stringhe. Durante l’interrogatorio il 21enne ha confessato. Movente? Semplice e assurdo al tempo stesso: “erano troppo felici”. Abbiamo detto tutto: è l’invidia che uccide.

C’è un’invidia umana e sana che assomiglia all’emulazione; nasce dall’ammirazione di chi consideriamo superiore e degno di stima”, scrive Roberto Pani, Specialista e professore di Psicologia Clinica e Psicopatologia dell’Alma Mater Sudiorum Università di Bologna, Psicoterapeuta e Psicoanalista. E’ quella – oramai rarissima – che possiamo definire “invidia sana”.

Un altro noto psicologo, Enzo Spaltro, semplificava il concetto così: mentre la gelosia è “il voler avere l’altro”, sentimento negativo poiché rende l’altro come una cosa da possedere, l’invidia è il desiderio di “essere” l’altro, sentimento che nasce dalla stima e quindi tendenzialmente positivo. Il problema è che riconoscere che l’altro è migliore può generare frustrazione, soprattutto in una società competitiva come la nostra, per cui eliminare il migliore equivale ad eliminare il paradigma del proprio insuccesso o della propria inferiorità. E’ una pratica più frequente di quanto si possa immaginare: lo si fa con la maldicenza, con la finta indifferenza, con la diffamazione e con la calunnia. Se non si uccide fisicamente – come ha fatto il 21enne leccese – si uccide l’immagine della persona invidiata, la sua vita di relazioni, la sua serenità. “Cattiveria-applicata” a vari stadi di applicazione che campeggia purtroppo nel nostro quotidiano fatto di egoismo, egocentrismo, narcisismo e competitività.

Si può dire – continua Roberto Pani – che “l’invidioso psicopatologico non cammina con le sue gambe, perché è come se percepisse che una “madre cattiva” non gli avesse donato ciò che era necessario per vivere autonomamente, non gli avesse offerto il necessario nutrimento, gli avesse fatto mancare qualcosa di importante così che lui avesse qualcosa in meno degli altri. Egli soffre perché vede gli altri fortunati. Le emozioni positive dell’altro lo fanno star male ed egli cerca di difendersi sentendosi superiore, negando in altre parole la sua debolezza. L’invidioso fantastica di veder distrutto l’oggetto invidiato, oppure s’accanisce contro la gioia dell’altro. C’è in lui molta rabbia a volte espressa, a volte sotterranea pronta a balzare fuori per un nonnulla”.

Il grande comico napoletano Totò (che fuori dalla scena manifestava una notevole profondità d’animo) scrisse: “… Quello che causa l’invidia è la tua essenza, la tua energia, è ciò che sai fare bene e lui no; è il successo con la tua famiglia; sono i tuoi talenti; la tua aura, le tue relazioni. E’ il modo in cui gestisci i tuoi valori attraverso la tua vita: quelle cose che ti fanno risplendere di una luce che nessuno potrà mai spegnere. Questo è quello che uccide ogni persona invidiosa e non immagini nemmeno cosa darebbe per avere quella luce che proviene dal tuo essere e che mai potrà copiare”.

Ecco, forse quella “luce” che faceva risplendere i due fidanzatini di Lecce evidentemente era accecante per un 21enne reso opaco dalle sue frustrazioni e che invece avrebbe potuto avere tutta la vita davanti. Poveri fidanzatini, quindi, uccisi solo per spegnere ciò che risplendeva in loro e povero anche l’assassino passato dall’opacità al buio e, ancor peggio, sprofondato nella tragica banalità della sua invidia.

[*Ugo Terracciano, Presidente AICIS]

 

 

AICIS