Le attività di controllo sulla pesca marittima sono state affidate dal legislatore al Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera, struttura radicata e capillarmente diffusa lungo gli oltre 8000 Km di costa. Scelta confermata dal D.lgs n.4 in data 9 gennaio 2012 con il quale è stato ribadito che le verifiche sulla pesca, sul commercio e sulla somministrazione dei prodotti di essa, nonché l’accertamento delle infrazioni alle leggi ed ai regolamenti che li riguardano, sono affidate alla direzione del Comandante della Capitaneria di Porto. L’adozione, in ambito europeo, di una politica comune della pesca (PCP), ha portato gli Stati membri a costituire i rispettivi Centri di Controllo Nazionali, strutture qualificate cui tutti gli organi preposti alle ispezioni sulla filiera devono fare riferimento. In Italia, il Centro Controllo Nazionale Pesca (CCNP) è stato costituito con il DPR 9 ottobre 1998 n. 424 ed ha, quale compito prioritario, la sorveglianza sullo sforzo di pesca e sulle attività economiche connesse, avvalendosi delle strutture periferiche presenti presso ciascuna della 15 Direzioni Marittime, denominate Centri di Controllo Area Pesca (CCAP).
Per quanto riguarda l’ambiente, le competenze sono riconosciute al Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera in ragione dell’art. 57, comma 3, c.p.p., dell’art. 1235 Cod. Nav., dell’art. 21 della Legge 979/82 recante disposizioni per la difesa del mare, art. 22 del D. lgs 4/2012 sul riassetto della normativa in materia di pesca e acquacoltura e degli artt. 135 e 195 del D. Lgs 152/’06 recante norme in materia ambientale.
I casi, a cui a breve si farà cenno, rispettivamente cattura/raccolta di oloturie e pesca del dattero di mare, discendono dall’attività operativa svolta dal personale della Guardia Costiera. Oltre all’accertamento delle violazioni in materia di pesca marittima, sono stati applicati i nuovi ecodelitti di “inquinamento ambientale” e di “disastro ambientale”. Scelte applicativo – operative che hanno trovato pieno accoglimento da parte dell’Autorità giudiziaria, non solo in fase di applicazione di misure cautelari, reali e personali, ma anche in successive fasi di giudizio, financo con gli orientamenti nomofilattici della Suprema Corte di Cassazione.
Sul piano tecnico – operativo, sono state applicate le sottoelencate normative:
- Per la pesca marittima, per le oloturie: D. lgs 4/2012, art. 7, comma 1, lett. a); per il dattero di mare – D. Lgs 4/2012, art. 7, comma 1, lett. c);
- Per l’ambiente marino-costiero (oloturie e datteri di mare), l’art. 452quater “disastro ambientale” del vigente Codice penale.
Come stabilito dalla Suprema Corte di Cassazione in una delle sue primissime sentenze (Cassazione penale, Sez. III, sentenza n. 29901 del 3 luglio 2018), ai fini della configurabilità del reato di disastro ambientale, così come definito dal legislatore nel citato art. 452quater è necessario che le conseguenze della condotta producano effetti sull’ambiente in genere od anche su uno dei suoi componenti.
Molto utile al criminologo che studia i green crimes, è peraltro il recente Rapporto Mare monstrum 2022 di Legambiente del quale è utile citare: «In Italia solo grazie all’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale, tra cui quello di disastro ambientale, è stato possibile sviluppare finalmente inchieste adeguate rispetto alla gravità dei reati commessi contro l’ambiente marino e alle loro conseguenze. Come quella contro i trafficanti di oloturie, comunemente conosciute come “cetriolo di mare”, specie marina protetta per le importanti funzioni “depurative” che svolge e particolarmente prelibata in paesi come la Cina, il Giappone e l’Indonesia. A finire sotto inchiesta sono state 17 persone che avevano allestito un vero e proprio “saccheggio organizzato” di oloturie nel Mar piccolo di Taranto e lungo la costa jonica della Puglia. La specie protetta, rivenduta ad acquirenti di etnia orientale, arrivava a costare fino a 300 euro al chilo, per un giro d’affari stimato in circa 4,5 milioni di euro» [v. https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2022/06/Rapporto-Mare-Monstrum-2022.pdf; C. Rovito, Green criminology e Mare “monstrum”, su https://criminologiaicis.it/green-criminology-e-mare-monstrum/ ].
La rilevanza mediatica, non disgiungibile da quella eminentemente criminologico-giudiziaria, dell’operazione di polizia giudiziaria ambientale svolta dalla Guardia Costiera di Taranto, consente di ragionare sull’importanza delle motivazioni che hanno portato al maxi-blitz del gennaio 2021: associazione a delinquere, disastro ambientale aggravato, ricettazione, distruzione o deturpamento di bellezze naturali.
Dello stesso assunto è l’altrettanto vasta operazione coordinata dalla Procura della Repubblica di Torre Annunziata contro un’associazione a delinquere specializzata nella cattura, illegale e devastante, del “dattero di mare”, con 21 persone coinvolte tra Campania, Puglia, Liguria e Lombardia. Nell’inchiesta sono finite, con altre imputazioni, 82 persone, tra titolari di ristoranti e singoli acquirenti attratti dal “gusto del proibito”. Mentre una nuova indagine è stata aperta per quella messa a segno nel 2020 contro due bande organizzate di predatori di datteri di mare tra Napoli e Castellammare di Stabia, attive anche a Capri, Vico Equense e Punta Campanella, sono arrivate le prime condanne. Nel marzo del 2022, dopo un processo che ha visto l’Associazione ambientalista Legambiente costituirsi parte civile, il Giudice per l’udienza preliminare ha condannato il capo dell’organizzazione che unitamente agli altri imputati avevano chiesto il rito abbreviato alla pena detentiva di 6 anni, due mesi e 20 giorni di reclusione.
Nel dossier di Legambiente emerge altresì, in maniera incontrovertibilmente, che a guidare la classifica regionale della “pesca illegale” sia la Sicilia con 1.978 infrazioni (amministrative e penali), seguita dalla Puglia (1.582) e Campania. (1.488 reati). Al quarto posto si colloca Calabria (602). La Liguria è la prima regione del Nord (846) seguita dalla Toscana (749). Nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa (Sicilia, Puglia, Campania e Calabria) è stato accertato il 52,1% delle infrazioni.
Un dato che deve necessariamente valutarsi con riguardo al contesto socioeconomico per il quale si evidenziano tassi disoccupazione molto alti, dacché la pesca di frodo costituisce una modalità di sopravvivenza per molte famiglie, gran parte delle quali percettrici di reddito di cittadinanza.
L’introduzione dei nuovi delitti ambientali (e l’applicazione pratico – operativo a cura della polizia giudiziaria!) continua a caratterizzarsi per una dinamicità giuridica, nel senso che pongono le agenzie del controllo dinanzi a fenomeni criminali sempre più complessi che necessitano di conoscenze, analisi, approfondimenti e capacità interdisciplinari. Presupposti che servono anche a dare conto agli appelli dell’opinione pubblica in generale ed ai movimenti ambientalisti in particolare, senza tralasciare di evidenziare che esistono, e non potrebbe essere altrimenti, inevitabili connessioni con il contesto politico sociale del momento, a sua volta strettamente dipendente dai rivolti democratici.
In questo “campo” è attribuibile un ruolo importante, al pari della fase di costruzione sociale del crimine, al processo di produzione delle notizie che seleziona più frequentemente e prioritariamente quei frames riconducibili alla cronaca giudiziaria ed alla criminalità. Molte delle operazioni di polizia giudiziaria concentratesi negli anni sui “datterari” e sul fenomeno della pesca/raccolta delle oloturie, pur avendo origini diverse, hanno in comune l’essere state oggetto di un racconto giornalistico [F. Spina, “Protesta sociale. I movimenti tra criminalizzazione e ideologie comunicative”, in Media che cambiano, parole che restano a cura di D. Borrelli, M. Gavrila, Franco Angeli, Milano, 2013] che ne ha evidenziato tutti gli aspetti in termini di danno perpetrato all’ecosistema marino ed alle risorse biologiche. Senza trascurare la capacità di adattamento della polizia giudiziaria ambientale alla domanda di giustizia attraverso elementi fondamentali quali la fiducia, il valore ed il networking, essenziali, anche nel “controllo sociale” a capitalizzare il patrimonio intangibile all’interno delle strutture funzionali dello Stato [M. Mazzotta, G. Spadafora, Fiducia, Valore, Networking, Tangram Edizioni Scientifiche, 2018].
Con l’introduzione del delitto di “disastro ambientale” – art. 452quater c.p., il legislatore del 2015 ha inteso risolvere le problematiche nate in conseguenza del vuoto sanzionatorio nei confronti di condotte gravemente lesive per l’ambiente, cui prima si sopperiva mediante la punibilità a titolo di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., nonché di adeguare e rendere più severo il trattamento sanzionatorio, dato che le fattispecie contravvenzionali di cui al D.Lgs. 152/06 (Codice dell’ambiente) non hanno di fatto mai avuto un effetto deterrente. Diversamente dal delitto di cui all’articolo 434 c.p., tuttavia, il bene giuridico principalmente tutelato è l’ambiente, e solo in seconda battuta la pubblica incolumità. L’intento del legislatore è quello di punire la mutazione dei luoghi, se concretamente idonea a minacciare gravemente l’ambiente. La norma descrive il disastro ambientale come l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; un’alterazione dell’ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; l’offesa alla pubblica incolumità per via della diffusività del danno ambientale e della messa in pericolo di un numero indeterminato di persone. Già dalla stessa formulazione della norma si intravede il chiaro richiamo ai requisiti dimensionali e qualitativi del disastro elaborati dalla giurisprudenza in relazione all’art. 434 c.p., anche se in realtà i due requisiti sono postulati alternativamente e non cumulativamente. Ciò significa che può esservi disastro ambientale anche senza messa in pericolo della pubblica incolumità, e viceversa. Per quanto concerne l’elemento soggettivo, si richiede il dolo generico, ovvero la coscienza e volontà di realizzare una delle condotte descritte.
La struttura criminogena del reato di disastro ambientale con danni irreversibili all’ecosistema marino perpetrato attraverso la raccolta/pesca dei datteri di mare e delle oloturie consta sostanzialmente di tre livelli:
Primo Livello: è interessato dalla “manovalanza”, cioè dai pescatori subacquei con capacità psico – fisica adatte e idoneità tecnico – professionali a svolgere l’attività subacquea.
Secondo livello: è interessato da coloro che esercitano l’azione di intermediario assicurando un adeguato coordinamento tra i destinatari/consumatori/richiedenti del prodotto ittico e gli esecutori materiali della pesca di frodo. Ruolo svolto spesso da soggetti di sesso femminile con buone capacità relazionali e comunicative, affidabili, in grado di garantire una sorta di equilibrio gerarchico tra i diversi attori, in perfetta sintonia con gli indirizzi criminali del livello superiore.
Terzo livello: vede protagonisti indiscussi soggetti appartenenti alla borghesia criminale imprenditori turistici, spedizionieri, alti funzionari, avvocati, medici, magistrati, soggetti facoltosi che possono permettersi di fare taluni “ordinativi” presso rinomati ristoranti e togliersi “sfizi culinari” di alto pregio nutritivo; comunque, attori sociali collocabili all’interno dei white collar individuati da Edwin Sutherland [M. S. Gaylord, J. F. Galliher, The Criminology of Edwin Sutherland, Taylor & Francis, 2020].
La pesca del dattero di mare è verosimilmente la pratica più impattante al mondo sugli habitat marini, le cui perdite possono essere irreversibili, nel senso che occorrono più di 50 anni perché si riformino e tornino alle condizioni originali. Oltre a quanto già descritto nel primo capitolo, il dattero è un mollusco bivalve della famiglia Mytilidae Rafinesque 1815, distribuito lunga tutta la costa mediterranea, nell’Oceano Atlantico, dal Portogallo al Senegal e alla costa settentrionale dell’Angola ma anche nella costa mozambicana, anche se le segnalazioni indopacifiche della specie dovrebbero essere rivedute attentamente.
Il dattero di mare ha un comportamento endolitico, tipico di tutte le specie Lithophaga, similarmente ad altri generi di mitili, che possono colonizzare diversi substrati duri, come arenarie calcaree, argilliti, calcari, coralli morti e coralli vivi. Abita in gallerie scavate nel calcare, fissando il suo margine antero-ventrale della conchiglia alla parete interna delle gallerie con il bisso (una sorta di seta naturale marina). Contrariamente a quanti ritengono il contrario, l’assenza di segni di erosione sul guscio di questa specie esclude qualsiasi attività meccanica di perforazione. Le gallerie sono infatti scavate grazie ad una mucoproteina neutra capace di legare il calcio, che viene secreta dalle ghiandole palliali e tendono ad essere perpendicolari alla superficie rocciosa allo scopo di ridurre al minimo la competizione intraspecifica. L’attività di perforazione si verifica principalmente nella stagione autunno – inverno, in quanto durante il restante periodo dell’anno la maggior parte dell’energia viene spesa per la riproduzione. Il ricorso all’analisi del trascrittoma eseguita sul tessuto della ghiandola palliale ha suggerito possibili geni candidati coinvolti nell’attività chimica di perforazione. [Trascrittoma: termine, analogo a genoma e proteoma, che indica l’espressione dei geni negli RNA messaggeri (mRNA) di un intero organismo o di un particolare organo, tessuto o cellula a un dato stadio dello sviluppo dell’organismo o sotto particolari condizioni ambientali. Da questo concetto deriva la trascrittomica, una delle branche che si sono evolute dopo i primi sequenziamenti di interi genomi, che mira all’analisi di interi profili d’espressione, cioè a quantificare l’espressione di un gran numero o di tutti i trascritti – https://www.treccani.it/enciclopedia/trascrittoma_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della-Tecnica%29/].
In passato la pesca del dattero di mare, che avviene attraverso la rottura distruttiva degli ambienti rocciosi, era piuttosto saltuaria, praticata dai pescatori che per caso recuperavano blocchi di rocce carbonatiche, i quali portatili fuori dall’acqua, con l’ausilio di martelli e scalpelli, riducevano i blocchi in piccoli pezzi riuscendo così a mezzo di pinze ad estrarre i datteri di mare. Lo sviluppo delle immersioni subacquee ha permesso lo sfruttamento di questa risorsa ittica in posti precedentemente irraggiungibili come grotte in profondità. Perciò la pressione di pesca sul dattero di mare è aumentata rapidamente nel corso degli fino a quando, nel 1988 è stato disposto il primo divieto di raccolta, detenzione e commercializzazione del dattero di mare e del dattero bianco (Decreto n. 401, 20 agosto 1988, Ministero della Marina Mercantile), successivamente rinnovato annualmente e reso definitivo nel 1998 (DM 16 ottobre 1998).
A livello comunitario un’esplicita proibizione dell’uso di tali attrezzi nella pesca è stata sancita dal Regolamento UE 1626/94 riguardante le attività di pesca nel Mediterraneo e recentemente ribadita dal Regolamento UE n° 1967/2006 sempre relativo a questo mare che all’articolo 8 vieta la cattura, la detenzione a bordo, il trasbordo, lo sbarco, il magazzinaggio, la vendita e l’esposizione del dattero di mare e del dattero bianco.
Le condotte delittuose, ora punite anche con il delitto ex art. 452quater (disastro ambientale), richiedono il possesso di un’ottima costituzione psico – fisica, di elevate capacità natatorie, conoscenza delle procedure e modalità di immersione. Le azioni criminali di “pesca di frodo” si svolgono prevalentemente in acqua, laddove i subacquei predatori utilizzano martelli, mazze o attrezzi specifici (anche martelli pneumatici ed in alcuni casi veicoli subacquei) per frantumare le rocce. Poi rimuovono totalmente il substrato superiore, unitamente alla ricca comunità epibentica che lo caratterizza, e per ultimo raccolgono i datteri, lasciando la roccia nuda e liscia, disseminata di buchi vuoti. Il lento tasso di crescita di questo mollusco richiede che passino diverse decadi affinché si possa avere un recupero della popolazione di datteri di mare dopo la loro raccolta. I criminali del mare cercano continuamente nuovi luoghi non ancora sfruttati, portando ogni anno ad una grave distruzione di nuove coste rocciose imperturbate. Come si è detto la “manovalanza” non costituisce l’unico livello operante nella costruzione delittuosa del disastro ambientale e soprattutto non sono solo i pescatori subacquei gli unici ad essere stati condannati, essendo intervenuta recentemente una condanna anche a carico di coloro che operano nel delineato secondo livello, ovvero ristoratori: «Se nella primavera del 2022, a conclusione del rito abbreviato, erano stati riconosciuti colpevoli coloro i quali materialmente avrebbero depredato i fondali, provocando gravi danni all’ecosistema, perché il prelievo dei datteri . . . omissis … ora le pene detentive colpiscono il secondo anello della catena, coloro i quali, secondo le accuse della Procura che il Tribunale in primo grado ha reputato fondate, si occupavano dello smistamento sul mercato e della commercializzazione del mollusco. mercato e della commercializzazione del mollusco». [https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/cronaca/23_febbraio_03/faraglioni-saccheggiati-datterari-due-condanne-esulta-wwf-sentenza-storica-5e1572f6-a3ef-11ed-9b22-49a84f556483.shtml].
Le oloturie, meglio note come cetrioli marini, sono una classe di echinodermi diffusi sui fondali marini di tutto il mondo e caratterizzati da un corpo cilindrico allungato con bocca e ano situati alle estremità opposte. Il nome comune di questi organismi bentonici deriva dalla loro morfologia simile all’ortaggio. Di tale specie è fondamentale evidenziare quanto importanti per il ruolo e le importanti funzioni eco sistemiche svolte nel riciclo di sostanze nutritive che possono, a loro volta, alimentare alghe e coralli e possono avere un ruolo attivo nel difendere le barriere coralline dall’acidificazione degli oceani. Sono note anche come “spazzini del mare” perché contribuiscono a preservare i delicati equilibri degli ecosistemi marini e la biodiversità marina. Le ragioni del divieto sono da ricercare nella pesca incontrollata di questi organismi marini che vengono esportati nei Paesi orientali dove rappresentano un alimento “di lusso” nella cucina tradizionale. Ma i cetrioli di mare svolgono un ruolo ecologico troppo importante e il depauperamento delle popolazioni di oloturie comporta il rischio di sconvolgere gli equilibri degli ecosistemi marini costieri.
Nei Paesi Asiatici, in particolare in Cina, le oloturie, oltre ad essere considerate una prelibatezza gastronomica, trovano utilizzo anche nel settore farmaceutico e cosmetico. La fortissima domanda alimenta un notevole giro d’affari in quanto le oloturie seccate vengono vendute tra 10 e 600 $/Kg, con punte di 3.000 $/Kg, a seconda delle specie. Per questi motivi la pesca delle oloturie, iniziata nei mari asiatici negli anni ’50, si è poi estesa esponenzialmente a tutti i mari del globo anche per la mancanza di una appropriata regolamentazione delle catture. Nel Mediterraneo, le prime coste ad essere interessate da questa pesca indiscriminata sono state quelle di Turchia, Grecia e Spagna.
Negli ultimi anni la pesca incontrollata di questi organismi marini ha interessato anche le coste italiane. Già nel 2016, a seguito di un grosso sequestro di oloturie, le considerazioni scientifiche fornite dalla Sede di Taranto dell’Istituto per l’ambiente marino costiero avevano supportato il Tribunale di Taranto nel denunciare che “la pesca abusiva di tonnellate di esemplari di oloturie, asportando totalmente dai fondali marini tale specie, causa un grave danno alla biodiversità presente nei tratti di mare interessati, nonché l’alterazione grave ed irreversibile dell’ecosistema marino”. Ad oggi, a cadenza annuale, il Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste adotta un decreto ministeriale con il quale dispone il divieto di pescare (catture bersaglio o accessorie), detenere a bordo, trasbordare ovvero sbarcare esemplari della classe Holothuroidea. Il vigente DM del 23.12.2022 ha esteso il divieto di cui sopra dalla data del 1° gennaio 2023 e fino al 31 dicembre 2023, salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione. Tale tipologia delittuosa non poteva/veniva accertata e contestata perché vi era l’assenza di una legge o di un decreto ministeriale che prevedesse il divieto di pesca e commercializzazione delle oloturie. Con una sentenza del 20 aprile 2017, la stessa aveva stabilito che anche se le oloturie non sono tra le specie in via d’estinzione, «il depauperamento dei fondali è tale da far ritenere verosimile l’ipotesi che la pesca delle oloturie stia portando all’estinzione della specie nei fondali marini italiani».
L’operazione di polizia giudiziaria ambientale di Taranto denominata “Kalimera” è iniziata a seguito di esposti presentati all’Autorità giudiziaria, a cui si è poi aggiunto il clamore mediatico discendente da un’inchiesta giornalistica del marzo 2019 con cui è stato denunciato il traffico delle oloturie provenienti dal Mar piccolo di Taranto, destinate ad acquirenti orientali.
A differenza di quanto avviene nel commercio dei datteri, in quello delle oloturie, trattandosi di prodotti richiesti dall’industria cosmetica cinese, entrano in gioco trasportatori (nel caso specifico, i soggetti fermati sono risultati di nazionalità greca), collocabili tra il secondo ed il terzo livello supra descritti (tra gli intermediari e gli acquirenti, prevalentemente di origine cinese).
I risvolti investigativi hanno evidenziato il carattere transnazionale del crimine ambientale de quo che, come tale, richiede maggiori sforzi ed impegno investigativo tra le forze di polizia, nazionali, comunitarie e internazionali, e le Autorità giudiziarie dei paesi direttamente o indirettamente interessati dal traffico illegale (Eurojust, Interpol, etc.). Se per i datteri di mare occorre un approccio micro-criminologico, per le oloturie è necessario ricorrere ad un macro approccio-criminologico, fermo restando l’interdisciplinarietà delle azioni di studio, di prevenzione e repressione dimostratasi fondamentali nella ri-costruzione di tali fatti/azioni devianti.
L’autore:
Cristian Rovito è un criminologo qualificato AICIS, giurista, sociologo, consulente ed esperto ambientale, operatore di polizia giudiziaria del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera. Scrive per diverse riviste specializzate di settore, giornali, magazine e blog.
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