(AICIS) “Dā mihi, inquit, ubi cōnsistam, et terram commovēbō” (Datemi un punto di appoggio e solleverò il mondo), diceva Archimede. In chiave moderna, e giudiziaria, la leva che solleva il processo ora ha un nome preciso e si chiama DNA. Prova scientifica e prova regina al tempo stesso, senza la quale il peso dell’inchiesta è sempre più gravoso: basta un confronto tra traccia e reperto e il caso è chiuso. Per chi non ne fosse del tutto convinto basta quanto affermato dalla Cassazione penale, Sez. II, nella sentenza n. 11622 del 27 febbraio 2020, secondo cui “La mancanza del nulla osta del pubblico ministero all’inserimento nella banca dati nazionale del DNA del profilo genetico tipizzato da reperti biologici mediante accertamento tecnico non rende inutilizzabili, per violazione dell’art. 10 della legge n. 85/2009, la raccolta dei dati e le comparazioni operate, atteso che tale norma non pone divieti probatori, ma attiene alle sole modalità formali di trasmissione del risultato dell’accertamento, legittimamente acquisito al procedimento penale, e neppure dà luogo ad alcuna nullità processuale, in difetto di una espressa previsione in tal senso ex art. 177 cpp.
E la Corte europea diritti dell’uomo Sez. IV, 14 aprile 2020 ha escluso l’illegittimità della perquisizione condotta presso l’appartamento del ricorrente, ma ha ritenuto che il diritto al rispetto della vita privata e familiare di quest’ultimo fosse stato leso da un prelievo di DNA non disciplinato dalla legge.
E se ancora manca un indagato? In tema di indagini preliminari – ha sostenuto la Cassazione penale n. 52872/2018 – gli esiti del prelievo di tracce biologiche e delle successive analisi genotipiche finalizzate ad eventuali confronti sono utilizzabili quando il procedimento si svolga contro ignoti e non sia possibile osservare le garanzie di difesa previste per gli accertamenti tecnici irripetibili compiuti dal pubblico ministero.
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