(AICIS) Il cadavere non è di proprietà dei suoi familiari. Lo ha chiarito la Cassazione civile (Sez. I) nella sentenza del 19 luglio 2012, n. 12549. Secondo la Corte non è configurabile un diritto soggettivo dei prossimi congiunti sul corpo della persona deceduta, circostanza da cui discende l’insussistenza di un loro potere di disposizione su di esso. La disciplina positiva risulta orientata verso il duplice obiettivo della difesa del corpo delle persone decedute da inutili e gratuiti interventi mutilatori e della legittimazione delle eventuali iniziative dell’autorità giudiziaria poste in essere per motivi di giustizia. Ed invero il cadavere costituisce oggetto di espressa tutela nel vigente codice penale nell’apposito capo relativo ai delitti contro la pietà dei defunti (artt. 407-411 c.p.), che mirano per l’appunto a tutelarne il rispetto sotto diversi aspetti, e cioè in relazione all’integrità delle tombe ed alle cose destinate al relativo culto, allo svolgimento del funerale, ad eventuali atti di vilipendio, alla distruzione, soppressione, sottrazione, occultamento o uso illegittimo di cadavere, e quindi in fattispecie del tutto diverse rispetto a quella oggetto di giudizio. Analogamente, il Regolamento di Polizia Mortuaria (D.P.R. 10 settembre 1990, n. 285) prevede poi (art. 83) che le salme possono essere esumate prima del prescritto turno di rotazione per ordine dell’autorità giudiziaria, per indagini nell’interesse della giustizia (ovvero per trasportarle in altre sepolture o per cremarle previa autorizzazione del sindaco), così come alla medesima autorità è conferita la facoltà di disporre esumazioni straordinarie per identiche finalità, e pertanto con riferimento all’avvertita necessità di assicurare gli accertamenti indispensabili per motivi di giustizia. In entrambi i casi contemplati dal citato Regolamento non è dunque richiesto il consenso dei familiari o degli eredi all’esumazione ed all’autopsia del cadavere del congiunto, consenso la cui necessità è anzi da ritenere implicitamente esclusa dall’interpretazione complessiva della normativa vigente sopra richiamata. D’altro canto, la facoltà di agire in giudizio a tutela di un proprio diritto è costituzionalmente garantita (art. 24 Cost.), sicché una interpretazione della normativa vigente orientata in senso restrittivo rispetto al relativo esercizio si porrebbe in contrasto con il dettato costituzionale. Ciò tanto più ove si tratti di controversia avente ad oggetto l’accertamento di un diritto fondamentale, attinente allo status della parte che agisce in giudizio.
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