Da quando l’uomo ha cominciato a muovere i suoi primi passi sulla terra, ha dovuto fare i conti con lo sviluppo della sua sfera emotiva. L’essere umano ha fornito prova di non essere solo un involucro fatto di carne e di materia ma di avere una componente nascosta e occulta, invisibile all’occhio e non palpabile dal senso del tatto: le emozioni e i sentimenti. La codifica di tali elementi umani si basa sulla percezione, sulla comunicazione verbale, para-verbale e non verbale. Le parole che permettono di esprimere le sensazioni provate, i segni del corpo sia quelli eclatanti che palesano l’emozione provata, sia quelli meno percettibili, visibili solo all’occhio allenato e professionale. La vita emotiva, oggi, si trova ad affrontare nuovi spazi di espressione, che non si sovrappongono più alle modalità che abbiamo finora conosciuto. La sfera privata, la sfera intima dell’umano, oggi, è stata violentemente dislocata sull’agorà digitale. Uno spazio che si è evoluto in modo diversificato rispetto all’uomo, uno spazio creato dall’uomo per l’uomo, ma sfuggito alla stessa capacità umana di controllo. E in questo nuovo spazio digitale che abbatte i confini fisici e materiali, l’individuo si apre al mondo attraverso l’interfaccia dei social, una sorta di finestra con cui guardare il mondo circostante e con cui mostrarsi al mondo circostante. Della vita emotiva il dolore rappresenta una delle sfumature precipue, appartenente a quel ventaglio di emozioni negative che penetrano e intingono l’esistenza umana. La filosofia ha assunto nel tempo uno scopo pragmatico inteso come strumento con cui giungere alla felicità, nemesi del dolore. Il pensiero arcaico intendeva il dolore come qualcosa di fatale, effetto della disarmonia degli elementi che pongono in pericolo la vita come suggeriva Platone o come ciò che contrasta con la felicità come indicava Aristotele. Epicuro accostava la felicità all’atarassia, la liberazione dei tormenti e delle paure ossia la liberazione dell’allegoria del dolore. Un qualcosa da bandire, da allontanare, una sorta di veleno che striscia nel sangue, come una putrefazione dell’animo umano. Mentre per lo stoicismo, il dolore, è l’atteggiamento umano di fronte alle cose che non dipendono da lui e la modalità con cui si affronta è l’imperativo stoico della sopportazione del dolore mediante l’apatia. Solo più tardi il pensiero cristiano conferiva al dolore un significato nuovo, che non è più solo male fisico, conseguenza dell’introduzione del concetto di peccato, e di male morale legato al libero arbitrio, ma anche come una sorta di via privilegiata per la purificazione in chiave cristiana e da qui non più basilare sopportazione ma piuttosto una sorta di accettazione o perfino l’agognare il dolore come mezzo di ammenda ed espiazione dei peccati commessi. Con l’avvento del pensiero moderno e del processo di secolarizzazione, il concetto di dolore viene desacralizzato, non più qualcosa che redime ma un qualcosa da redimere. Al dolore viene così dato un riconoscimento più elevato che muta la sua natura, se ne scruta la sua essenza proficua, la sua velata innocenza, solo con l’esperienza del dolore si scopre la fame di lottare contro la vita stessa e solo chi ne assaggia le sue briciole, può decantare di aver vissuto. Kant lo considera ineluttabile dalla vita ma riconducibile con l’uso della ragione. Ma con Schopenhauer si pone un’attenzione completamente innovativa al concetto di dolore contemporaneo, che lo erige a problema filosofico fondamentale, non più una realtà che tende al senso ma al non senso, il dolore non trova più giustificazione o spiegazione ma diviene monogramma rilevatore dell’esistenza. Il paradigma dell’elogio al dolore.

L’IASP (International Association for the Study of Pain) definisce il dolore mettendo in rilievo la sua componente esperienziale e cognitivo/affettiva, infatti, lo definisce “un’esperienza sensoriale ed emozionale spiacevole associata a danno tissutale, in atto o potenziale, o descritta in termini di danno”, tuttavia la pratica clinica oggi vaglia solo la sua componente sensoriale. Da un punto di vista psicologico la percezione del dolore è influenzata dall’interpretazione e della valutazione dell’individuo e il dolore molto spesso si pone in comorbilità all’ansia. La paura e l’ansia portano il soggetto ad anticipare il dolore che proverà, acutizzando la sensazione. L’ansia anticipatoria porterà il soggetto ad attuare il comportamento di evitamento massivo, meccanismo di difesa mentale, di tutte quelle sensazioni o luoghi ove il soggetto ha empiricamente provato dolore.

Il dolore del lutto

La perdita di una persona cara è un’esperienza della vita alla quale tutti siamo chiamati a vivere. Tendenzialmente i nostri schemi mentali rendono capace l’individuo di superare e accettare la perdita del congiunto in un periodo di 18 mesi, a volte purtroppo il lutto può diventare patologico e il soggetto presenta una certa resistenza all’accettazione e al superamento. Il processo di elaborazione di un lutto è un processo lento e vissuto negli abissi più profondi dell’intimo umano, l’elaborazione passa attraverso diverse fasi, cito la teoria più acclarata nella letteratura scientifica, quella delle cinque fasi di Kübler Ross:

  • Nella prima fase l’individuo sperimenta la negazione o il rifiuto attraverso una distorsione della realtà con componente psicotica: la dipartita del congiunto non è avvenuta.
  • Nella seconda fase l’individuo prova rabbia che si caratterizza in ritiro sociale, solitudine e bisogno di indirizzare il dolore e sofferenza verso l’esterno (entità superiore, medici, società) o rendendolo introspettivo (non essere stati presenti, non aver impedito ecc.)
  • La terza fase è quella della contrattazione o del patteggiamento, una rivalutazione del proprio operato e il riacquisto dell’esame della realtà.
  • La quarta fase fa scivolare l’individuo nello stato di depressione in cui si rende conto che non è l’unico a vivere quel tipo di dolore e che la morte sia ineluttabile.
  • L’ultima fase è l’accettazione del lutto che vede la totale elaborazione della perdita e l’accettazione di una nuova e differente condizione di vita.

Non essendo stadi bensì fasi, queste possono insorgere in maniera discontinua, con differenti tempistiche, alternanza e intensità.

Il dolore e il lutto ai tempi dei social

La nascita dei social network ha inevitabilmente esteso al mondo virtuale tutti i comportamenti, i sentimenti, le emozioni umane della vita off line. Con l’abbattimento dei confini fisici e materiali, la diffusione sempre più veloce dell’informazione e dei big data, ha portato online anche il dolore, la sofferenza e la morte. Diceva Wiston Churchill che la morte di una persona è una tragedia, ma la morte di milioni di persone è solo statistica. Da quest’affermazione possiamo muoverci in continuum di trasformazione di ciò che sia il dolore e di come viene amplificato e nello stesso tempo annullato dalla mente umana. Fin quando si verifica la dipartita di una persona cara e conosciuta, la morte diventa tragedia, ma quando le tragedie sono lontane (fisicamente o mentalmente) dall’individuo la morte diviene solo un numero, che a volte sfiora di striscio l’animo umano in una durata che va dai tre minuti dei servizi dei telegiornali, alla media di un minuto dei tempi di lettura degli articoli online, alla media dei due secondi in cui si scorre la pagina delle news feed dei social network. Quelle tragedie e quei dolori diventano, immediatamente, cifre che si perdono nell’archivio della nostra memoria. Questo è quello che, sostanzialmente, è accaduto nel mese di dicembre e gennaio 2020, quando è scoppiata la pandemia di Covid-19 a Wuhan in Cina. Il resto del mondo e soprattutto l’Italia, muta la drammatica situazione cinese in dati e numeri e in un monito sparso e rassicurante “è lontano da noi”. Fin quando la tragedia si consuma “lontano da noi” il cervello attua della semplice pietas temporanea, momentaneo, passando subito a un altro processo mentale ossia un acclarato meccanismo di difesa ove l’individuo si sente “intoccabile”. “L’intoccabilità” consente al soggetto di vivere in maniera superficiale o preferibilmente leggera, “tutte le cose terribili, le guerre civili, la carestia, le epidemie, le malattie, le calamità naturali, che accadono nel mondo non accadranno a me”, quest’atteggiamento preserva dall’ansia e dall’agitazione che anticipano la paura atavica della morte. Il soggetto, sostanzialmente, si cala nei panni dell’immortale. Questo è un atteggiamento che culturalmente e per via di realtà storiche caratterizza per la maggiore l’Occidente. Un tentativo costante, dato dallo sfrenato edonismo smemorato, di negarla la morte, di esorcizzarla. Eppure, può accadere, che in dato momento storico, in una società liquida e globalizzata come quella odierna, le onde prodotte dal battito di una farfalla che ha sbattuto le ali in America sono capaci di arrivare in Italia. Una società globalizzata ha la capacità di far ripercuotere le conseguenze di un evento in tutto il mondo, questo accade per le cose positive come la rete web che ha abbattuto i confini materiali e ci ha reso più vicini per certi aspetti, e gli eventi negativi come la crisi finanziaria, la grande recessione, del 2006, scoppiata negli Usa, che ha prodotto conseguenze in tutto il mondo. Sempre la stessa società globalizzata con la libera circolazione degli individui che percorrono e circumnavigano continuatamente l’intero globo, è capace di far veicolare un virus che prima mieteva vittime solo lontano da noi. Che cosa succede, allora, quando la tragedia varca i nostri confini in modo così strillante? Quell’atteggiamento così leggero e superficiale assume toni totalmente diversi, seppur sequenzialmente capaci di ristringere lo spazio entro cui l’individuo si sente sicuro. Lo stesso territorio nazionale viene a spaccarsi e a circoscriversi man mano che la minaccia diventa pericolo e si avvicina. “Il virus è al nord, allora ai noi cittadini del sud non interessa, è ancora lontano. Il virus allora varca i confini e giunge nelle regioni del sud, ma è lontano perché non è nella mia provincia. Il virus giunge in tutte le province ma è lontano non è il mio comune. Il virus si sparge nel comune di residenza, ma è ancora lontano non è a casa mia. Il virus è in casa mia.” Lo spazio d’invulnerabilità è oramai finito. La morte, il dolore, allora non sono più statistica, numeri, lontani, diventano tragedie.

Dalla spettacolarizzazione del dolore all’anestetizzazione del dolore

Oggi si assiste a una comunicazione media e social media che tende a spettacolarizzare il dolore. Si tratta di un processo che porta al non racconto, al non narrare per aiutare con la propria esperienza l’altro che subisce, ma piuttosto un metodo macabro di fare audience sul dolore degli altri. Oggi la morte viene data in pasto al pubblico come protagonista predominante dello showbiz, accompagnandola da opinionisti che per ore e ore vanno a scavare nell’intimo di una tragedia, di un suicidio, di un omicidio, di una vita che era e che ora più non è, nel privato di una vita rubata dagli occhi affamati degli spettatori che vogliono sempre di più vedere, sempre di più sapere. La bulimia dell’informazione allora trasforma attraverso la messa in onda di continue testimonianze del vicino di casa, del parente lontano, di una mamma che piange, di un padre disperato, il dolore vero in dolore irreale. Spariscono, allora, quel pietoso pudore, quell’intimità, quel riserbo, quella necessità di elaborazione del lutto, quel processo di vita che richiede tempo e perseveranza per essere raggiunto. Perché non vi è il tempo. Il tempo perde allora quella concezione cristiana di linearità e di sequenzialità giacché quel dolore viene dato in pasto a tutti, a volte ostentato, a volte continuamente disseppellito e profanato continuamente dagli studi televisivi e dalla web society. Ed ecco che anche quell’immagine dei mezzi militari che trasportano dolore fuori delle porte della città di Bergamo assume toni quasi teatrali, spettacolari, ma soprattutto depauperata dal suo stesso significato: informare e non spettacolarizzare. Perché ogni vittima di questa pandemia occulta una vita piena di affetti, passioni, interessi, chiusi per sempre in una cassa e portati a bruciare lontano dagli occhi di chi il dolore dovrà affrontarlo.

Da questo processo di spettacolarizzazione del dolore si giunge a una fase differente, causata dal bombardamento d’informazioni del mondo digitale che ha radicalmente mutato i valori, l’intimità e il modo di affrontare il dolore giungendo al processo di anestetizzazione al dolore altrui. L’empatia che fa parte di quella vasta gamma di capacità umane che contraddistinguono la stirpe umana, ha ormai perso completamente il suo processo di assorbimento di dolore altrui e d’immedesimazione.  Ci si abitua così tanto a certe immagini che diventano sempre di più non un click, ma uno scorrimento di due secondi, una registrazione mnemonica breve che si va a perdere in un abisso di umanità sempre più abituata al dolore che culmina nello svuotamento di significato dello stesso, per lasciare spazio al delirio narcisistico d’individualità e di edonismo.

Deborah Bottino Criminologa AICIS