Il nostro codice di procedura penale prevede la possibilità di eseguire la perizia psichiatrica sul soggetto imputato (e non solo) laddove sia necessario determinare l’assenza o la diminuzione della capacità di intendere e di volere in ossequio all’art. 89 c.p.. Non si esprime altrettanto positivamente in merito ad un’altra forma di perizia, la cosiddetta perizia criminologica. Partendo dal dato positivo in analisi ossia l’art. 220 c.p.p. che sancisce il divieto di effettuare sul soggetto una perizia volta a stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”.[1] Il dato letterale che è ricavabile dall’interpretazione del citato comma II dell’art. 220 c.p.p. delinea una definizione che non riceve una critica positiva da parte della dottrina, viene considerata parziale, riduttiva o eccessiva (quindi assume considerazioni contraddittorie) ma l’analisi deve essere operata su questa nozione, giacché la norma codicistica non consente interpretazioni estensive. La perizia criminologica ha l’obiettivo di indagare l’abitualità nel reato, la professionalità, la tendenza a delinquere, ergo, redigere un quadro di personalità e di carattere per impiegarla solo nella fase esecutiva, quando si deve individuare come svolgere la pena o che misura di sicurezza applicare. Il legislatore, invece, si è prodigato contro questa possibilità, imponendo un divieto nel poter utilizzare questa tecnica di analisi psicologica. La ratio del legislatore nell’imporre il divieto può essere individuata, in primis nel pericolo di lesione della libertà morale dell’imputato che è riscontrabile nell’esame psicologico effettuato sul soggetto; secondo alcuni autori attuare in un processo un esame volto a elaborare un quadro personologico del soggetto sarebbe lesivo della sua dignità, giacché da una parte il soggetto sarebbe spinto velatamente a esporre una confessione, che ovviamente sarebbe indotta e non volontaria, e dall’altro lato si delinea il rischio di cedere ai pregiudizi creati da precedenti o aspetti particolari del carattere dell’imputato che potrebbero condizionare il modus iudicandi dell’organo giudicante. In sostanza, questa tipologia di perizia può condurre il giudice a giudicare non solo sulla base dei fatti inerenti al caso de quo ma sul profilo dell’imputato che viene tracciato da valutazioni psicologiche con l’ulteriore rischio che il giudice nell’ambito della stesura delle motivazioni possa fare ricorso agli esiti di questo esame con il fine di attribuire il reato al soggetto o di identificare il movente; inoltre queste valutazioni psicologiche vanno a violare l’abisso profondo dei segreti che appartengono al passato dell’imputato. In secondo luogo la bassa affidabilità degli esiti dei risultati psicologici e la complessità dell’esecuzione della perizia, difatti molti autori asseriscono che il sapere psicologico sia contro-intuitivo, in opposizione al senso comune e spingendo il giudice a valutare erroneamente ciò che gli viene mostrato. L’autore Eramo afferma che il diritto penale che accetta di introdurre indagini sulla personalità del soggetto è definito come “diritto penale interiore”, protagonista in quei sistemi che poggiano le fondamenta su elementi soggettivi, laddove domina l’esaltazione dell’elemento spirituale ossia le intenzioni. È un diritto penale che ha come obiettivo quello di punire i pensieri più nascosti della persona, estorti in maniera violenta ovvero fraudolenta con l’ausilio della tortura, della narco-analisi, la macchina della verità o altri strumenti del genere. L’obiettivo principale è quindi la “repressione del dissenso” senza il bisogno di prove oggettive, dando importanza al potenziale e non alla condotta criminosa che va a ledere il principio, appartenente al diritto penale moderno, nemo patitur cogitationis poenam, brocardo che indica che niuno può essere punito per il semplice pensiero finchè questo non si traduca in azione materiale.[2] In terzo luogo, si esplicita una difficoltà nel mettere in atto un’indagine psicologica, che non può non considerare l’atteggiamento del soggetto, ove è necessaria una stretta collaborazione e proprio per questo motivo la sua riuscita può essere compromessa, o per una collaborazione scarna da parte del soggetto o per una collaborazione eccessiva, che lo condurrebbe a dipingere un ritratto di sé che non corrisponde alla realtà, simulando un carattere che non gli appartiene.

La scelta del legislatore, come già ricordato precedentemente, non è stata abbracciata pienamente da dottrina e giurisprudenza, è nato difatti un dibattito che trova le sue radici in tempi reconditi.

 

 Le origini del divieto di perizia criminologica: dal Codice del 1930 al Codice di Rito 

Il codice di procedura di penale del 1930 disciplinava il divieto di perizia criminologica all’art. 314, II comma, prescrivendo una “clausola di sbarramento” pretesa dagli esponenti della Scuola Classica, il divieto di «perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la personalità dell’imputato e in genere la qualità psichiche anche indipendenti da cause patologiche» (art. 314, co. 2, c.p.p.). La locuzione è stata riportata in tal modo nell’attuale codice di rito. Bisogna osservare che la sistematica processual-penalistica, all’epoca, mancasse di concordanza rispetto alla sistematica di diritto penale sostanziale, la quale era favorevole alle valutazioni psicologiche dei fatti illeciti e degli autori; il legislatore del 1930 conosceva molto bene gli assunti della Scuola Positiva, ciò si evidenzia in maniera particolare nel Libro I del Codice Penale, intitolato “Dei reati in generale” rivolto al reo e alla persona offesa, che differenzia e separa l’imputabilità dalla colpevolezza, che funge da preambolo all’apparato sanzionatorio incentrato sul c.d. doppio binario. Pertanto la perizia era ed è ammessa solo nei casi in cui l’imputato presenta anomalie psicologiche che derivano da stati patologici. Si delinea un paradosso che si insinua nell’assetto normativo e che giunge fino all’attuale impianto normativo che da un lato obbliga il perseguimento di certi obiettivi, ma dall’altro preclude l’ausilio di quegli strumenti atti a raggiungere certi obiettivi giacché il legislatore dell’epoca era diffidente della c.d. “psicologia del profondo” presumendo che il giudice in qualità di peritus peritorum avesse capacità e conoscenze tali da non richiedere l’avvalersi dell’assistenza di esperti del settore, una contraddizione pura di fondo non risolta nemmeno dalle successive riforme.

L’avvento della Costituzione pone le spinte necessarie a una riforma del processo penale, ergo anche sul tema della perizia criminologica. La dottrina guarda con favore agli strumenti proposti dalla medicina forense, dalla psicologia e dalla psichiatria, percepiti come mezzi atti a coadiuvare il giudice. L’orientamento che prevale auspica proprio alla caduta del divieto o almeno a una riforma valida che riformi l’intero istituto. La dottrina cattolica, anche se minoritaria ma comunque molto influente, ha avuto la meglio sulle spinte innovatrici e riformiste in merito alla perizia criminologica poiché secondo quest’orientamento si sarebbe rischiato di comprimere la libertà morale e la dignità dell’uomo inducendolo a una confessione forzata e ascrivendogli il reato sulla base di una sorta di anamnesi criminale. La prima riforma del codice di procedura penale vede la sua luce nel 1955 con un’apposita legge di modifica che interessa anche l’art. 314 c.p.p. ma solo sui profili procedurali, senza toccare il divieto.[3] Successivamente, sulla scia del progetto di stesura di un nuovo codice di procedura penale, l’orientamento innovatore riprende a farsi sentire proprio all’interno del Parlamento che approva una prima delega legislativa che prevede il testo di “riordinamento dell’istituto della perizia medico-legale, psichiatrica e criminologica”, che si propone di mettere in atto una spinta verso una considerazione maggiore per la perizia psicologica e il suo presunto apporto positivo al processo, per l’applicazione di una pena commisurata al reato e a maggior tutela per il diritto di difesa dell’imputato; anche se questo progetto di riforma non trova un esito positivo, si matura una maggiore fiducia nei confronti della psicologia come mezzo in grado di aiutare il giudice per avere un quadro della personalità aldilà dell’ambito patologico, ergo tutti i presupposti per la legittima entrata della perizia psicologica nelle dinamiche processuali, ma tenendo in considerazione il momento in cui collocarne l’utilizzo giacchè avrebbe dovuto essere funzionale alla sanzione, ergo applicabile solo alla fine del dibattimento. Nella seconda legge di delega risalente al 1986, l’ipotesi del “giudizio di personalità dell’imputato” vede il suo momento di collocazione in ogni stato e grado del processo per conoscere meglio il soggetto, ergo un’analisi sulla personalità finalizzata alla tutela dello stesso che consenta alla difesa di reperire elementi probatori necessari a una più corretta ricostruzione dei fatti, anche questo progetto si riduce a un fallimento, l’Assemblea parlamentare preposta alla revisione la ritiene rischiosa e ravvede un pericolo concreto per la violazione di diritti costituzionali. Queste esperienze riportano il legislatore sulla vecchia strada e, dunque, a riconfermare il divieto trasfuso nell’ex novo art. 220 c.p.p. lasciando irrisolta la diatriba nata in precedenza.[4] Il dibattito si riapre negli anni 90, successivamente alla L. Cost. del 23 novembre 1999 n.2 che vede l’introduzione delle norme del c.d. “giusto processo”, concedendo garanzie più ampie all’imputato per difendersi ricorrendo a qualsiasi mezzo di prova. Alla luce di queste modifiche, di queste maggiori garanzie di difesa all’imputato, i fautori della perizia criminologica risollevano la questione dell’ammissibilità facendo leva sul fatto che la norma costituzionale non può tollerare un divieto apposto dal legislatore ordinario, poiché quest’orientamento parifica la perizia psicologica a mezzo di prova per l’utilizzo da parte dell’imputato, ergo con accezione positiva e non come lesiva nei suoi confronti. Sulla scia di quest’orientamento prende vita una nuova proposta di legge avanzata dal senatore Siniscalchi con lo scopo di abrogare il divieto di cui all’art. 220 c.p.p.. Questa proposta è un frutto di una rinnovata e profonda fiducia verso la psicologia giuridica e verso la criminologia, ormai scienze accreditate, dotate di metodo verificabile e controllabile. Davanti a questo quadro non è più possibile formulare opposizioni a queste discipline circa la loro completa maturazione, poiché, si sostiene che le garanzie sui risultati dati da questo strumento hanno raggiunto la certezza, dunque questi timori sarebbero infondati. La proposta Siniscalchi introduce una riforma mitigata al semplice accesso delle relazioni peritali scientificamente valide senza però consentire uno sconfinamento nell’aerea di competenza riservata alla verifica degli elementi di prova acquisiti e vagliabili dal giudice in ossequio all’art. 192 c.p.p., difatti il giudice, secondo la nuova proposta, avrebbe potuto disporre della perizia psicologica laddove ritiene la sua necessità come disciplinato dal primo comma dell’art. 220 c.p.p. e i risultati vagliati ai sensi dell’art. 192 c.p.p., per valutare la consistenza dell’accusa ma con un limite sostanziale ossia che tali risultati non potrebbero essere impiegati nella motivazione per ascrivere il fatto delittuoso all’imputato. In linea teorica questa proposta sembrerebbe ricevere il favore di molti operatori del diritto, in quanto conforma una legge ordinaria alle modifiche apportate alla Legge Fondamentale, inoltre rassicura coloro che temono la perizia psicologica come strumento poco garantista nei confronti dell’imputato. Nonostante queste premesse positive, anche questo progetto finisce per arenarsi per una ragione non esplicita ossia che non è tanto il processo penale a temere la psicologia, ma il giudice che rivendica ancora la figura protagonista e che si vede sottrarre poteri. Sono proprio gli stessi giudici che alimentano questa preoccupazione e ne trovano anche la soluzione, avallando la fondatezza del divieto. [5]

 

 La giurisprudenza della Suprema Corte e della Corte Costituzionale

La Suprema Corte si esprime favorevole al divieto ribadendolo in una sentenza datata 13 settembre 2006, la n.30402 in cui conferma l’inammissibilità di accedere a una perizia criminologica nel corso del processo, precisando che il divieto in ossequio all’art. 220, II comma c.p.p., mette in atto un effetto espansivo, in quanto mette in pratica l’inutilizzabilità della perizia a entrambe le parti coinvolte nel processo, dando solo la possibilità di disporre di perizie volte ad accertare l’assenza o diminuzione della capacità di intendere e di volere e al giudizio di pericolosità sociale, il divieto trova la sua ratio nella tutela dell’imputato per non spingerlo a una confessione indotta. La Corte, dunque, conferma il divieto e ne ribadisce l’indole positiva dello stesso posto a tutela dell’imputato, avvalorando quella storica sfiducia nei confronti della psicologia.[6]

Dal canto suo anche la Corte Costituzionale viene chiamata in causa per stabilire la legittimità costituzionale dell’art. 220, II comma in ben due occasioni: la prima volta la questione di legittimità costituzionale viene sollevata dell’art. 314, comma II c.p.p ritenendo il divieto in contrasto con la funzione rieducativa e risocializzante ai sensi delll’art. 27, comma III cost. Il giudice a quo, premettendo che ai sensi dell’art. 133 c.p. per determinare la misura della pena si deve tenere conto del dolo, del grado della colpa e dei motivi che spingono a delinquere e del carattere del reo, asserisce di “non essere in grado di procedere all’effettivo accertamento del complesso di tali elementi non essendo un esperto di psicologia” e la necessità di disporre di una perizia che di fatto risulta vietata. Inoltre, lo stesso, aggiunge che il divieto è solo il frutto di un atteggiamento diffidente e ingiustificato verso la psicologia che in sostanza lede il principio costituzionale sopracitato, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione, ergo il giudice deve usufruire di tutti i mezzi adatti a individuare una pena commisurata al soggetto. Il giudice ad quem rigetta la questione, servendosi di una spiegazione di mera formalità circa la sussistenza positiva del divieto, precisando che il legislatore ha provveduto a dare seguito alla funzione emendatrice della pena, giacché riporta l’opportunità di usufruire di un esame caratteriale dell’imputato. La ratio del legislatore si impronta su una scelta discrezionale che non può essere oggetto della questione di illegittimità. La Corte Costituzionale, questo è necessario ricordarlo, non si pone, però, in totale sfiducia verso l’entrata delle scienze psicologiche nel processo penale, precisando che la diffidenza del legislatore possa essere considerata opinabile al fronte degli studi moderni e dei passi in avanti compiuti dalle scienze empirico-sociali. Il secondo episodio che ha visto la Corte Costituzionale investita nella sua funzione di controllo di legittimità costituzionale per esprimersi nuovamente sulla materia, la questione riguarda l’art. 314, comma II, c.p.p. per violazione a ben tre principi costituzionali, art. 24, II comma, Cost. e l’art. 27, III comma, Cost. nonché l’art. 3 Cost. Si parte da un tentativo di chiarire se il divieto può considerarsi lesivo del diritto di difesa, giacché ostacola l’imputato di poter procurarsi gli elementi di prova decisivi per la sentenza finale, altresì in contrasto con il principio di uguaglianza, giacché lo stesso mezzo è consentito nel processo minorile a norma dell’art. 11 r.d.l. 20 luglio 1934, n. 1404; e infine ancora una volta in contrasto con la funzione rieducativa della pena. Il giudice ad quem, anche in questo caso, rigetta la questione richiamando la precedente sentenza e affermando che il problema non è di legittimità costituzionale ma di mera discrezionalità legislativa: l’imputato, nell’ambito della difesa, può contare sull’esperienza e sulla cultura del giudice e le uniche critiche che possono essere mosse riguardano la funzione legislativa e non profili di incostituzionalità. Per quanto concerne la funzione rieducativa della pena si esprime la Corte: “Le considerazioni suesposte in ordine alla funzione emendatrice della pena ed al carattere unitario della formulazione dell’art. 27, terzo comma, della Costituzione, valgono ad escludere la prospettata illegittimità dell’art. 133, secondo comma, n. 1, cod. pen., nella parte in cui fa riferimento al solo carattere e non anche all’intera personalità dell’imputato. Non può infatti negarsi, per i motivi già enunciati, che l’attribuzione di una maggiore o minore rilevanza agli elementi soggettivi nella graduazione concreta della pena rientra oggi nel giudizio di discrezionalità politica rimesso al legislatore ordinario”[7]. Per quanto concerne, invece, la violazione del principio di uguaglianza, asserisce che le particolarità del processo minorile, soprattutto in relazione allo scopo rieducativo della pena, rendono impossibile un paragone.

 

 Verso il superamento del divieto: le proposte

Molti autori, favorevoli all’abrogazione del divieto, si sono espressi in favore al suo superamento suggerendo alcune strade da percorrere. Se si parte dal postulato che la psicologia sia una scienza allora non si potrebbe vietarla ex legge per il processo, giacché il divieto risulta irragionevole. L’operatore di diritto deve, però, fare i conti con una norma la cui stessa Consulta ne ha attestato la legittimità costituzionale. Bisogna evidenziare che tale divieto pone alcune limitazioni, giacchè è limitato al campo della psicologia, ma solo nel sondare il carattere e la personalità del soggetto e le sue qualità psichiche svincolate però da cause patologiche, ma avanza anche delle eccezioni connesse alla fase esecutiva sia della pena sia della misura di sicurezza, inoltre tale divieto non opera nel processo minorile ove il ruolo degli psicologi viene valorizzato.

La prima strada che viene seguita è definita “del primato del metodo” che può essere esposto partendo dal dato positivo che si ottiene dal combinato disposto dall’art. 111, III comma, Cost. «Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata suo carico, disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nella stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo»; e dal IV Comma “Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore”;  ancora dall’ art. 3 Cost: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge (…)”. La norma sembrerebbe violare il metodo del contraddittorio nel giusto processo ed ergo le regole costituzionali dello stesso con l’annesso principio di uguaglianza. Il metodo del contraddittorio non fa discriminazioni alle scienze in quanto sul piano probatorio le ammette tutte, non fa sconti in quanto la verità scientifica deve essere vagliata in maniera critica e specifica. La violazione del principio di uguaglianza è citata in merito al fatto che, non è corretto trattare in modo differente situazioni che risultano del tutto analoghe, solo per il fatto che, sempre in merito a questo orientamento, si perpetuano pregiudizi privi di motivazioni nei confronti della psicologia. Ci si è spinti anche a parlare di una violazione del diritto di difesa, ex art. 24 Cost., laddove non si permette alla difesa di usufruire del contributo della psicologia per provare l’innocenza del proprio assistito, ma questo, ovviamente, può rientrare nel suesposto discorso del giusto processo. [8]

La seconda strada è denominata “all’italiana” e un orientamento sviluppatosi nel caso del delitto di Cogne. In maniera molto sintetica si ritiene che la parte interessata possa disporre dello svolgimento di una perizia psichiatrica sia per una dettagliata descrizione del carattere e della personalità del soggetto, sia per le sue qualità psichiche svincolate da cause patologiche. Queste descrizioni psicologiche andrebbero a collimare con le valutazioni strettamente psichiatriche per il raggiungimento della sentenza. La giurisprudenza, però, riporta un orientamento assolutamente contrario a quello appena esposto che si è già descritto e che si incentra sul divieto posto a tutela dell’imputato. In sostanza si vorrebbe far entrare la perizia criminologica in maniera subdola e silenziosa attraverso la finestra di quella psichiatrica. L’orientamento favorevole asserisce che è fuorviante il riferimento alla garanzia dell’imputato, che risulta essere il destinatario della tutela e che di sua spontanea volontà potrebbe rinunciare allo strumento peritale, magari per una strategia difensiva, il metodo del contraddittorio dovrebbe già di per sé garantire queste tutele. [9]

L’ultimo orientamento viene definito “chi si accontenta gode” ed è un’interpretazione secundum legem del secondo comma dell’art. 220 c.p.p.. Secondo questo orientamento una corretta interpretazione dovrebbe muoversi su una duplice considerazione. La prima riguarda un rapporto che intercorre fra il primo (regola) e il secondo comma (eccezione). Partendo da una premessa che attiene all’art. 14 delle Preleggi, le norme che fanno eccezione a regole generali si applicano solo ai casi e ai tempi indicati nelle stesse, pertanto il secondo comma art. 220, che configura un’eccezione alla regola generale dichiarata nel primo comma, dovrebbe essere interpretata in maniera restrittiva, il che dovrebbe condurre alla facoltà di consentire il transito nel processo di tutte le informazioni corroborate al carattere e alla personalità del soggetto, nonché alle qualità psichiche, prescindendo dalla perizia affidata all’esperto nominato dal giudice e impiegando le valutazioni del testimone esperto. In sostanza l’interpretazione restrittiva del divieto consente l’introduzione nel processo delle valutazioni psicologiche sul carattere e sulla personalità provenienti da altri mezzi, come ad esempio, la consulenza di parte. Su queste conclusioni non può essere ammessa obiezione alcuna giacché è vietata la perizia e non la consulenza, affermare il contrario comprometterebbe il rapporto fra regola ed eccezione, dando vita a un’interpretazione in malam partem. L’altra considerazione concerne al principio del favor rei, giacché appare illogico impedire che l’imputato possa disporre di uno strumento, che viene esaminato criticamente e specificamente nel metodo del contraddittorio, da cui si potrebbero trarre elementi positivi e favorevoli nei confronti del reo. Ergo, la sentenza della Suprema Corte, che giustifica il divieto che in ragion per cui assume toni garantistici e a tutela del soggetto imputato, dissipa le sue basi poiché è lo stesso soggetto a chiedere di ricorrere all’uso della psicologia per dimostrare l’infondatezza dell’accusa che viene mossa contro quest’ultimo, proprio alla luce del principio suesposto. [10]

 

 

 

Estratto dalla mia tesi magistrale:

“Imputabilità e vizio di mente nello specchio dell’evoluzione della scienza psichiatrica”

 

[1] Codice di procedura penale, art. 220, II comma

[2] Eramo, Il divieto di perizie psicologiche nel processo penale: una nuova conferma della Cassazione

[3] L. 18 giugno 1955 n.517 “Modificazioni al codice di procedura penale”

[4] Ortis Pellizzer, Il divieto di perizia psicologica, in Psicologia Giuridica – Fondazione di Guglielmo Gullotta di Psicologia Forense e della Comunicazione

[5] Ortis Pellizzer, Il divieto di perizia psicologica, in Psicologia Giuridica – Fondazione di Guglielmo Gullotta di Psicologia Forense e della Comunicazione

[6] Cfr Cass. Pen., Sez. I, 13 settembre 2006, n. 30402, in Diritto penale e processo

[7] Sent. n. 179, 19 dicembre 1973, Corte Costituzionale cit.

[8] Ortis Pellizzer, Il divieto di perizia psicologica, in Psicologia Giuridica – Fondazione di Guglielmo Gullotta di Psicologia Forense e della Comunicazione

[9] Ibidem

[10] Ortis Pellizzer, Il divieto di perizia psicologica, in Psicologia Giuridica – Fondazione di Guglielmo Gullotta di Psicologia Forense e della Comunicazione

Deborah Bottino Criminologa AICIS