#di Cristian Rovito*

Di eccezionale interesse criminologico è il recente rapporto “Mare monstrum 2022” di Legambiente. Se non anche per il supporto “quantitativo” dei dati forniti. Utili ad inquadrare secondo la prospettiva della green criminology le violazioni perpetrate a danno degli ecosistemi marino – costieri ed alle risorse ittiche.

Oggi più che mai, il criminologo non può non “osservare” da un lato i propositi “politici” di tutelare il mare e le sue straordinarie risorse, non tralasciando di focalizzarsi anche su quegli aspetti che attengono più strettamente alla valorizzazione delle potenzialità necessarie per affrontare altre sfide, come quella della lotta ai cambiamenti climatici che passa anche attraverso la produzione di energia pulita con l’eolico offshore. Dall’altro, deve porre la sua lente d’ingrandimento su chi lo saccheggia e lo inquina, trasformando contesti straordinari in discariche di rifiuti; su chi non curante della bellezza delle spiagge e delle coste, le cementifica abusivamente. Ed ancora su chi, in quelle gemme preziose che sono le aree marine protette, con comportamenti illegali perpetra danni ambientali agli equilibri delle risorse sottoposte a tutela. Il merito di questo lavoro è senza dubbio il tentativo di inquadrare sistematicamente i vari aspetti di interesse criminologico (e non solo!) che attengono alla risorsa “mare”: abusivismo edilizio, deficit di depurazione, sversamenti in mare di liquami inquinanti di ogni tipo e soprattutto la pesca illegale.

I numeri forniti da Legambiente (https://www.legambiente.it/wp-content/uploads/2021/11/Rapporto-Mare-Monstrum-2022.pdf) sono inoppugnabili. Nel corso del 2021 sono state accertati 55.020 illeciti penali e amministrativi, alla media di 7,5 ogni chilometro di costa, ovvero un illecito ogni 133,3 metri. Le persone denunciate o arrestate sono state 20.485, le sanzioni 24.900, i sequestri 7.021, 392 le società denunciate e 270 quelle sanzionate. Il fattore di pressione di gran lunga prevalente è quello del ciclo illegale del cemento, dalle villette abusive all’occupazione illecita delle spiagge, che da solo rappresenta il 50,3% del totale, seguito dall’illegalità connessa ai fenomeni d’inquinamento e alla gestione dei rifiuti (25,3%) e dalla pesca illegale (20,8%). Chiudono questa classifica, con il 4%, le violazioni relative al Codice della navigazione anche nelle aree marine protette, dove le Capitanerie di porto Guardia Costiera hanno denunciato 2.023 illeciti penali e amministrativi.

A guidare sia la classifica generale, con 7.970 reati e illeciti amministrativi, sia diverse delle classifiche disaggregate elaborate per questa edizione di Mare Monstrum, è la Campania, dove si registra anche il maggior numero di persone denunciate o arrestate (3.630) e quello dei sequestri (1.627).

Al secondo posto si colloca la Sicilia (6.725 illeciti penali e amministrativi), seguita dalla Puglia (6.032). Quarta è la Toscana, a quota 5.359, che supera la Calabria e il Lazio. Una poco piacevole sorpresa, rispetto alle tradizionali classifiche di “Mare Monstrum” e del Rapporto Ecomafia, dovuta soprattutto al ciclo illegale del cemento, che vede la Toscana terza, dopo Campania e Sicilia, e all’elevato numero di illeciti amministrativi complessivamente accertati dalle forze dell’ordine e dalle Capitanerie di porto: ben 2.550, di nuovo in terza posizione, questa volta nell’ordine dopo Sicilia e Campania. La regione del Nord che subisce il maggiore impatto dell’illegalità in mare e lungo le coste è il Veneto, in ottava posizione (3.161 violazioni).

Nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa, infine, si concentra il 46,1% di tutti i reati e gli illeciti amministrativi riscontrati. Altrettanto interessante, anche perché la classifica cambia radicalmente, è il parametro a cui si è già accennato per il dato complessivo, delle violazioni accertate per km di costa. Qui il primo posto è della Basilicata, con 1.844 illeciti penali e amministrativi, alla media di 29,6 ogni km, ovvero uno ogni 33,8 metri. Secondo posto per l’Abruzzo, con un totale di 3.476 violazioni, ovvero 27,6 a chilometro; terzo il Molise, dove nei suoi 35,4 km di costa sono stati accertati 935 reati e illeciti amministrativi, alla non confortante media di 26 al km. Quarto posto per l’Emilia-Romagna (23,3 infrazioni a km), quinto il Veneto, dove la media è di 19,9 e “soltanto” sesta la Campania, dove le infrazioni sono a quota 17 per ogni km, più del doppio, comunque, della media nazionale.

Pe quanto concerne la macroarea “mare inquinato” da rilevare quanto accertato nl 2021 in Sicilia, ove si è registrato il più eclatante fenomeno di “maladepurazione”, con il sequestro di un impianto nell’area industriale di Siracusa, che serve anche il Comune di Priolo (http://dirittoambiente.net/file/rifiuti_articoli_239.pdf). Tra l’altro, già noto alla cronaca giudiziaria per i gravi disastri ambientali perpetrati negli anni dall’industria chimica. L’attività investigativa ha fatto emergere una vera e propria “offesa alla pubblica incolumità, derivante dall’enorme quantità di sostanze nocive immesse in mare e nell’atmosfera, dalla loro tossicità e nocività per la salute degli ambienti e degli uomini e dal numero di persone interessate dalla loro diffusione”.

Un “disastro ambientale” che interessa direttamente la trasformazione del mare in una discarica di rifiuti è quanto accertato nel corso dell’operazione “Gargano nostrum”, sviluppata dalla Procura di Foggia nell’ottobre del 2021. Sotto osservazione sono finiti dieci impianti di mitilicoltura, con 14 persone accusate per reati che vanno dalla combustione illecita di rifiuti al disastro ambientale. Basta ascoltare il contenuto di una delle intercettazioni telefoniche per avere un’idea dei danni causati: “Il mare adesso è un disastro, non c’è più niente. Sono sparite le lumachine, non ci sono più le vongole, sono spariti i pesci. È un disastro”.

L’incubo della pesca illegale fornisce purtroppo l’idea sulle dimensioni dell’assalto sistematico su scala globale al patrimonio ittico e alla biodiversità, con un business che oscilla tra gli 11 e i 26 milioni di pescato illegale ogni anno, “un quarto del valore globale di 120 miliardi di dollari della pesca”.

Appare utile in questa sede richiamare una sorta di parallelismo connettivo tra gli approcci della green criminology e le tecniche di neutralizzazione di David Matza. L’esperienza acquisita personalmente sul campo, “con gli stivali ai piedi” come indicava uno dei miei maestri di polizia giudiziaria ambientale, consente di affermare che soprattutto nel campo della criminologia verde operano, seppur a vari livelli e con gradi diversi di utilizzo, forme di negazione:

  • Negazione della propria responsabilità: il soggetto non si considera responsabile delle azioni commesse. Esse non sono dipese dal suo volere;
  • Negazione del danno: seppur infrange la legge, il soggetto ritiene di non aver provocato dei danni;
  • Negazione della vittima: essa può avvenire in due modi. Nel primo caso si colpevolizza la vittima. Nel secondo caso si nega la sua stessa esistenza, soprattutto quando fisicamente assente, sconosciuta, o “concepita in termini vagamente astratti”;
  • Condanna di coloro che condannano: il soggetto criminalizza le autorità, la polizia, i giudici, gli insegnanti, lo stato in generale, poiché a sua detta essi sono ipocriti, corrotti, mai imparziali;
  • Richiamo a lealtà superiori: il soggetto vede sé stesso dinanzi ad una scelta tra norme diverse. Giustifica l’infrazione richiamandosi a ideali o principi superiori (rubo per far star bene la mia famiglia) [Marotta G., Criminologia, storia teorie, metodi CEDAM, Lavis 2015].

L’introduzione dei delitti contro l’ambiente nel Codice penale, tra cui quello di disastro ambientale, si sta dimostrando un importante strumento investigativo (e repressivo!) per avviare utili attività di controllo che prima erano destinate a chiudersi nel giro di poco tempo stante la tenuità delle pene previste per i reati contestati, a carattere prevalentemente contravvenzionale.  È opportuno citare le attività di polizia giudiziaria svolte a seguito del fenomeno dei trafficanti di oloturie, comunemente conosciute come “cetriolo di mare”, specie marina protetta per le importanti funzioni “depurative” che svolge e particolarmente prelibata in paesi come la Cina, il Giappone e l’Indonesia. La specie protetta, rivenduta ad acquirenti di etnia orientale, arrivava a costare fino a 300 euro al chilo, per un giro d’affari stimato in circa 4,5 milioni di euro. L’utilità degli “ecodelitti” si è palesata anche nella lotta contro veri e propri sodalizi criminali dediti alla cattura/raccolta del “dattero di mare”. Una “pesca illegale” legata al “gusto del proibito”, che causa danni irreversibili agli ecosistemi marino – costieri poiché per la cattura di tali specie è inevitabile rompere quella roccia in cui si sviluppano nell’arco di molti anni.  

Alla luce dei dati disponibili, certamente ancora “grezzi”, che andrebbero accompagnati da approfondite ricerche qualitative, consentono ai criminologi di “interrogarsi”, ponendosi delle specifiche domande e fornendo spunti per nuovi interventi legislativi che in un’ottica proattiva e sistemica portino alla previsione di quelle fattispecie giuridiche che tutelino specificatamente anche la fauna protetta. A tal proposito è proprio Legambiente a dichiarare che: “Dovrebbero far riflettere bene il governo e il Parlamento, che si ostinano a non inserire nel Codice penale i delitti contro la fauna, in particolare quella protetta, le motivazioni che hanno portato al maxi-blitz del gennaio 2021: associazione a delinquere, disastro ambientale aggravato, ricettazione, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. Nulla a che vedere con la tutela specifica delle oloturie, come di tutte le altre specie protette del nostro Paese”.

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L’AUTORE:

Cristian Rovito è un criminologo qualificato AICIS, giurista, consulente ed esperto ambientale, operatore di polizia giudiziaria del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera. Scrive per diverse riviste specializzate di settore, giornali, magazine e blog.

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