Marco Fanti*

Sommario

  1. Introduzione
  2. Fear Crime (paura del crimine)
  3. Un futuro, una città
  4. Politiche di sicurezza urbana
  5. Sicurezza urbana, sfida per le politiche locali
  6. Il diritto urbanistico e la tutela dell’ambiente
  7. Policy per la sicurezza urbana attraverso la riqualificazione
  8. Safe city e Smart city
  9. Conosciamo il progetto VITRUV, contesto del progetto e gli obbiettivi
  10. Considerazioni finali

1.            Introduzione:

Lo spazio urbano rappresenta uno fra gli scenari principali della cosiddetta “deriva securitaria”; dettata non solo dalla criminalità, dalla presenza di varie etnie (immigrati, clandestini, senza fissa dimora) ma anche dal sempre più evidente degrado urbano.

All’interno della relazione esistente tra criminalità, ambiente fisico e percezione di sicurezza, una rilevante importanza è data ovviamente alla progettazione degli spazi urbani, all’ organizzazione dal punto di vista architettonico e urbanistico che incide positivamente sulla riduzione del sentimento di vulnerabilità e, in alcuni casi, contribuisce alla riduzione degli episodi di criminalità. È necessario dunque, al fine di limitare la commissione di crimini e sentimenti di insicurezza (fear crime) avvertiti dai cittadini, un approccio multidisciplinare alle problematiche delle nostre città. L’architettura, l’urbanistica, il diritto, la sociologia, la criminologia, possono, insieme, dare vita a tavoli di studio per intervenire in modo incisivo per, riformulare quelle politiche sociali, che ridiano una dimensione “urbana” dove integrarsi/coordinarsi, e riprendere il senso di appartenenza. Nel contesto urbano, la paura del crimine e la conseguente possibilità di restare coinvolti in episodi delittuosi, può seriamente comprometterne la quotidianità e, generare un sentimento diffuso di insicurezza che può declinarsi in “fear of crime” ossia la paura personale della criminalità, la risposta emotiva ad una minaccia che può essere effettiva o potenziale, e in “concern about crime” ovvero la preoccupazione sociale per la criminalità o per l’ordine, che origina un senso di inquietudine per la diffusione di episodi delittuosi, spesso di microcriminalità, che si verificano nei luoghi in cui si vive. Questa deriva securitaria, può portarci alla c.d. strategia iper prudenziale (atteggiamento tipico dell’ipocondriaco) fenomeno psico-sociale amplificato dagli ultimi fatti terroristici di matrice, (forse) Islamica. Grandi e manifeste differenze sociali e distributive, che           solo le città rendono così evidenti, sono il filo conduttore per sviluppare politiche di intervento in quei quartieri degradati, dove la criminalità può radicare la propria organizzazione, controllare il territorio e procurarsi manovalanza (IPC indice penetrazione criminale). Nel corso degli anni, abbiamo riscontrato numerosi piani integrati di sviluppo urbano, tesi verso il godere di alcuni privilegi in materia di security (gated communities), che hanno portato con il principio di restrizione (club economy) alla fine dell’uomo pubblico e, una nuova forma di individualismo. In tale contesto urbano si evidenzia che il solo intervento di tipo contingente e situazionale (law enforcement), non è efficace, per esserlo occorre interfacciare anche un metodo strutturale (informazione utenti, lavori messa in sicurezza, allarmi, cancelli, videosorveglianza), e creare numerosi hot spot per determinare i relativi livelli di criminalità in una specifica zona e monitorarli costantemente attraverso il c.d. crime mapping.

2.    Fear Crime (paura del crimine)

La paura del crimine colpisce molte più persone che il crimine in se, e ci sono buone ragioni per trattare il crimine e la paura del crimine come veri, reali problemi sociali. Questi eventi criminali catturano l’attenzione del pubblico in un modo tale che pochi altri possono. Una ragione è che ricevono straordinaria enfasi nei mass media, in televisione, nelle crime fiction etc. Ma anche senza questo tipo di amplificazione, rimangono eventi intrinsecamente interessanti. Situazioni che ricordano sempre a tutti che il mondo non è un posto sicuro, che il pericolo può colpire in qualsiasi momento e luogo, e che la vita, alla fine, è tenue e preziosa. Nonostante decenni di ricerca e di dibattito, gli investigatori devono ancora trovare una definizione unanime nella sfera sociologica del fear crime. Nel corso degli anni, la frase è stata identificata come una varietà di stati emotivi, atteggiamenti, e percezioni (tra cui la diffidenza di Othman, ansia, percezione del rischio, paura degli estranei, e preoccupazione per il deterioramento del quartiere, e declino morale nazionale). Anche coloro il cui lavoro è meritevole di lode sembrano avere difficoltà a definire la paura del crimine. Ferraro e La Grange, per esempio, inizialmente definiscono la paura come “reazioni emotive negative generate dalla criminalità o simboli associati ad essa. In base a tale definizione, tuttavia, sarebbe difficile distinguere la paura dalla tristezza, dalla rabbia, dalla disperazione, o rassegnazione. Gran parte della confusione sul significato della paura sembra derivare da una mancata distinzione tra, percezione, cognizione ed emozione. Nonostante le affermazioni di alcuni, la paura non è una percezione dell’ambiente (una consapevolezza o esperienza di stimoli sensoriali), ma una reazione all’ambiente percepito. Quindi le persone possono provare paura solo a previsione di possibili minacce o in reazione a stimoli ambientali (ad esempio, degrado, graffiti, rumore, etc), che implicano pericolo. Essere vittima di un crimine può comportare una perdita economica, un danno fisico e/o un danno psicologico dovuto al trauma subito. La paura di essere vittima di atti criminali può influenzare molto le proprie libertà personali, la propria qualità della vita e lo sviluppo dei territori. Anche la tematica della violenza è strettamente legata alla sicurezza personale e alla qualità della vita. La criminalità è una delle minacce più comuni per la sicurezza personale nei paesi sviluppati ed emergenti. Naturalmente anche altre minacce sono presenti, alcune delle quali agiscono sul livello macro come le guerre ed i conflitti sociali o i rischi ambientali, mentre altre hanno effetti sul livello micro, come la sicurezza dell’ambiente di lavoro o gli incidenti domestici.

Tuttavia in questo rapporto si focalizza l’attenzione sul ruolo della criminalità e la sua conseguente misurazione rispetto al benessere Nel concetto di criminalità vengono inclusi molti reati che tuttavia non necessariamente hanno un impatto diretto sulla qualità della vita e sul benessere della popolazione. È questo ad esempio il caso di alcuni reati economici che hanno un impatto basso sulla paura personale e che al contempo coinvolgono direttamente solo poche persone. Mentre altri reati, come i reati violenti, gli omicidi, le rapine, le lesioni, ed alcuni reati contro il patrimonio, ad esempio i furti in casa o gli scippi, hanno effetti più gravi e duraturi sul benessere degli individui, ed è su questi che si porrà una particolare attenzione. La criminalità ha sia un impatto diretto che indiretto sulle persone. Le conseguenze dirette riguardano la salute fisica e mentale, le perdite economiche, e possono essere più o meno lunghe nel tempo. L’effetto delle violenze subite, ad esempio, può protrarsi per periodi molto lunghi, se non per tutto l’arco della vita, in termini di capacità di gestione della propria vita nel quotidiano, di spese mediche, di dipendenza da altri, di capacità di raggiungere la felicità. Le conseguenze indirette inoltre sono causa di insicurezza e aumento della preoccupazione, ansia da cui può scaturire un conseguente ostacolo per le attività quotidiane. La crescita dell’insicurezza sociale e del suo particolare sottoprodotto, la fear of crime, manifesta una rilevante difficoltà che tutti i soggetti interessati stanno affrontando nel mettere a punto una adeguata policy, ponendo in risalto temi sociologici di più ampia portata che spesso sono trascurati. Una prima osservazione riguarda i caratteri stessi della società moderna. La tesi secondo la quale l’avvento della modernità avrebbe portato alla nascita di un ordine sociale più felice e sicuro è oggi scossa dall’evidenza che il crescere del crimine di prossimità e degli eventi terroristici, sta inibendo quello stato mentale stabile derivato da un senso di continuità riguardo agli eventi della propria vita la c.d. “sicurezza ontologica”. La sicurezza ontologica è quindi intimamente connessa alla routine, e dipende dalla diffusione delle abitudini e dalla familiarità delle relazioni. La prevedibilità delle piccole routine quotidiane fornisce generalmente un senso di sicurezza psicologica, ma quando queste vengono sconvolte da un fatto delinquenziale, o da un altro evento verificatosi all’interno del proprio nucleo familiare e sociale, subentrano stati d’ansia capaci di scuotere e alterare anche la più salda personalità. All’interno di un determinato nucleo sociale una delle fonti dell’insicurezza, è la violazione delle regole comunicative che provoca un’interruzione della fiducia accordata al prossimo, introducendo delle ansie esistenziali che prendono la forma del sospetto e dell’ostilità. Normalmente queste situazioni si verificano in conseguenza della comparsa nel contesto di attività quotidiane, di soggetti estranei all’ambiente comunemente vissuto, (gangs, stranieri, etc). In altri casi, la violazione delle abitudini sociali si verifica in seguito alla rapidità delle trasformazioni dello stesso ambiente locale, in occasione per esempio di cambiamenti del mercato immobiliare o di operazioni speculative.

La richiesta di sicurezza, che proviene dai singoli ma più spesso da gruppi più o meno consolidati, incorpora, in questa prospettiva, la rivendicazione del diritto esclusivo di costruire lo spazio sociale sulla base di criteri propri. Essa intende, più precisamente, rivendicare un potere che viene minacciato dalla presenza forestiera. In questo caso la richiesta di sicurezza, in quanto diritto di costruire il proprio spazio sociale, può pure mettere a fuoco l’ansia diffusa, unificare i timori in un concreto tangibile pericolo – il criminale, l’immigrato, il drogato – che ora si può combattere e tenere lontano. Insomma, la condizione moderna è caratterizzata strutturalmente da un senso di insicurezza individuale e collettivo che non potrà mai essere posto in maniera definitiva sotto controllo, proprio perché è la società stessa che lo alimenta continuamente. Con questi riferimenti ai problemi generali che sottendono il tema della sicurezza, non si intende dare risposte preliminari all’interpretazione di tali sentimenti, ma mettere in guardia da una loro troppo semplificata analisi e spiegazione. Essi hanno a che fare più che con la presenza e la diffusione della criminalità, con un generale bisogno di sicurezza ontologica e di fiducia negli altri. Una sapiente combinazione di fiducia sociale e di apertura culturale nei confronti dell’altro, potrebbe essere un incentivo decisivo per la riduzione dei sentimenti di insicurezza. La percezione di insicurezza può essere influenzata da tre fattori: fattori personali quali l’età, il genere, lo status socio-economico, le condizioni di salute; fattori socio-relazionali, che diventano preponderanti quando l’individuo non è adeguatamente integrato all’interno delle reti sociali comunitarie o, peggio ancora, ne è del tutto privo, e fattori situazionali che riguardano il rapporto tra il territorio urbano e la sicurezza dei cittadini come, per esempio, il quartiere di residenza o la città stessa. Il senso di invulnerabilità e il sentimento di sicurezza personale vengono, a questo punto, seriamente compromessi. La percezione individuale può essere altresì condizionata dalla gestione del territorio urbano da parte delle amministrazioni preposte al suo controllo. Una gestione più o meno attenta degli spazi urbani e dei relativi arredi incide sulla percezione individuale dei soggetti che si sentiranno più protetti in un contesto urbano illuminato, curato, vigilato, all’interno del quale vige un controllo sociale formale e informale attento, piuttosto che in un quartiere degradato, con edifici fatiscenti e in stato di abbandono, popolato da soggetti marginali, le cui presenze sono spesso ritenute poco rassicuranti. In conclusione la c.d. “rottura del regno del quotidiano” per mezzo del crimine ci permette di dire che finché la paura resta in proporzioni tollerabili, essa possiede un valore conservativo o moderatamente innovativo delle strutture; essa diventa distruttiva, quando approdiamo in quella sfera, del c.d. “crimine avanzato”. Questa paura può essere strumento d’affermazione di organizzazioni criminali. E’per esempio caratteristica dell’associazione mafiosa l’uso della forza di intimidazione, cioè la creazione di una paura diffusa; l’elemento differenziale della mafia dalle altre associazioni criminose, come scrive esplicitamente l’art. 416 bis del c.p., è appunto la intenzionale e programmatica diffusione della paura per ottenere obbedienza ed omertà che è consenso o acquiescenza in forza della paura.

3.    Un futuro, una città

Con un po’ di cautela possiamo dire che la città futura sarà sempre più una città condivisa, “una città per tutti”. Non solo per diversi ceti, ma anche per differenti culture.

Le città del passato si riempivano di contadini divenuti operai; oggi le c.d. popolazioni non residenti assorbono la cultura locale, ma si portano dietro la loro. Nelle vie nei centri commerciali si muovono uomini e donne di diverse etnie, vestiti spesse volte con indumenti tradizionali. La rete mondiale decentra alcune funzioni produttive, ma accentra nei centri urbani quelle di controllo, la cui economia offre molti lavori appetibili, che costituiscono quelle che, con una certa approssimazione, sono state indicate come “le classi creative” da Richard Florida. Nelle nostre città, si amplia la richiesta di “badanti”, ovvero di servizi alle persone che sono svolti soprattutto dai nuovi arrivati, coloro che non giungono più dal contado rurale – oggi spopolato ma dai margini del sistema planetario. La popolazione urbana sarà fortemente mobile e gli abitanti dovranno sempre più condividere gli spazi urbani con le Pnr, Le popolazioni non residenti, provocano una continua messa in discussione dei segni delle identità tradizionali, indebolite dal diffondersi dei nuovi spazi, soprattutto suburbani.

I luoghi per il nomadismo e il consumo sono disprezzati da quanti, in particolar modo gli intellettuali, si rifugiano nel sogno di una comunità che forse è esistita solo nel ricordo della loro gioventù. Dobbiamo, invece, riappropriarci creativamente di questi nuovi spazi sociali in cui ci muoviamo, consumiamo, ci divertiamo, lavoriamo e comunichiamo, comprendendo una buona volta che non sono luoghi a noi estranei, ma i nostri luoghi. Non corriamo troppo con la fantasia e i ragionamenti e vediamo piuttosto cos’è avvenuto nel passato recente e cosa sta avvenendo oggi, perché è lì che troveremo le premesse per accendere qualche sprazzo di luce sul futuro, sia pur con tutte le cautele del caso.

Non dobbiamo farci impressionare dai cambiamenti legati a grandi eventi simbolici, di cui il nostro tempo è fin troppo pieno. È vero che, rispetto alle anticipazioni del Terzo millennio, in pochi mesi si sono verificati fenomeni inattesi che sembrano aver cambiato il corso della storia; il 9/11 è stato un evento di innegabile impatto, ma non ha influito né sulla tendenza delle popolazioni a spostarsi in città, né sulla costruzione di grattacieli. Nel 1938, Louis F. Wirth, tra i maggiori sociologi urbani del tempo (e in generale) ha scritto un articolo dal titolo Urbanism as a Way of Life (Wirth, 1938) che è diventato rapidamente il verbo sia negli studi sulla città sia nelle pratiche di architettura e urbanistica. In questo articolo Wirth dava un’elegante definizione della città in tre variabili – grandezza (size), densità, ed eterogeneità che per molto tempo nessuno riuscì a sostituire con una, altrettanto incisiva. Oggi nessuno di questi criteri può più essere applicato banalmente per definire l’urbanità. Le dimensioni urbane, naturalmente, costituiscono ancora un fattore ineliminabile; le città continuano a essere luoghi popolosi, ma le unità fisiche con cui si misura questa grandezza sfuggono a una precisa identificazione. Regioni urbane funzionali (Fur), Daily urban systems (Dus), Standard metropolitan areas (Smas), Mega urban regions (Murs), Edge cities, “terre sconfinate”, “meta città” e così via sono tutti nomi che si riferiscono a entità dai confini discutibili, tanto che quando vengono proposte delle classifiche di città mondiali in base alla loro dimensione, non si sa bene quale sia l’entità classificata, per non parlare del problema di quale sia la popolazione cui si riferiscono le cifre. Per fare un esempio italiano, Milano è oggi un comune con una popolazione uguale o leggermente inferiore a quella che aveva negli anni 70, ma gran parte della sua popolazione, soprattutto giovane, si è spostata nelle aree periurbane. Di conseguenza, anche la densità è una misura che ha perso di significato, non solo per l’ovvia ragione tecnica che se non si conosce la superficie non si può misurare la densità, ma anche perché l’uso dei trasporti individuali ha permesso di distribuire gli stili di vita urbani su un’area molto grande, mentre le tecnologie della comunicazione permettono di sostenere questi stili anche senza la vicinanza. Inoltre si verifica una forma di privatizzazione del territorio, che di fatto segrega le persone in comunità contrattualizzate con stretti obblighi di conformità a stili di vita e a modelli vincolanti di comportamento.

Questa tradizione, che nelle sue forme estreme sfocia nelle gated communities, è molto estesa negli Stati Uniti, ma non ha preso piede nell’Europa continentale, dove il periurbano è ancora fortemente sottoposto al controllo delle amministrazioni pubbliche; dovunque, però, le famiglie della meta-città tendono a vivere in comunità sempre più separate tra loro in termini di classe, età, etnia; un fenomeno che, ha originariamente cambiato il volto non solo alla metropoli, ma anche all’intera società. La meta-città europea si è sviluppata nell’ultimo quarto del XX secolo. I nodi dell’insediamento storico urbano sono cresciuti e sono stati circondati da nuove aree urbane. I poli tradizionali, le periferie nascenti e le aree più grandi sono diventate i centri del nuovo sistema urbano. Mentre nelle economie europee più solide (Gran Bretagna, Germania, Francia), dopo un breve riassetto a seguito della fine della seconda guerra mondiale, le migrazioni interne sono rimaste stabili, in Paesi europei di più recente sviluppo, come l’Italia e la Spagna, lo spostamento di popolazione dalle periferie al centro è stato molto forte. L’Italia è stato di fatto il Paese con il più elevato tasso di migrazione interna, cosa che spiega l’instabilità del sistema politico italiano dagli anni 70 in poi. Oggi, negli Stati Uniti, in Europa e in altre parti del mondo, la popolazione tende a concentrarsi in sistemi urbani complessi, legati non solo dal pendolarismo, ma anche da relazioni più complesse di scambio e di controllo. Possiamo definire questi complessi meta-città, nel senso che esse non possono essere concepite come città gonfiate, ma piuttosto come entità del tutto nuove e diverse, la cui forma, in molti casi, non coincide con quella dell’area metropolitana. A esse non corrisponde un nuovo tipo di unità politica, ed esistono al di là dei confini amministrativi tradizionali (locali, regionali, statali e, qualche volta, nazionali). Naturalmente, un nucleo e un’entità politica maggiore esistono, ma l’aspetto interessante della nuova forma urbana sembra essere la cooperazione tra le varie componenti, piuttosto che il controllo esercitato dall’una sulle altre. Prendiamo l’esempio dell’Italia, dove si prospettano nuovi scenari. Di recente si è tornati a parlare dell’idea, nata negli anni 80, della Milano-Torino in una nuova versione suggerita dal completamento del Tav (Treno ad alta velocità), nonché dello sviluppo del Corridoio trans- europeo 5 (zona di sviluppo strategico che interessa l’Italia padana e passa nel traforo Tav Torino-Lione) e della necessità di dotare l’aeroporto internazionale di Malpensa di un hinterland sufficiente. Ciò che sembra emergere è una sorta di morfologia geometrica, in cui la mobilità e il trasporto, e non più l’insediamento, diventano modello fisico, privilegiando lo scambio a spese della posizione. La creazione di meta-città non è soltanto un problema europeo o regionale. Il peso dell’urbanizzazione si è progressivamente spostato dalle regioni a medio sviluppo a quelle a basso sviluppo, soprattutto in Asia. Si può affermare che la creazione di assi di sviluppo Est-Ovest, che si aggiungono a quelli tradizionali Nord-Sud, interessi l’intero pianeta e stia diventando una questione molto seria. L’urbanizzazione europea ha raggiunto e superato il picco della concentrazione di popolazione nelle aree metropolitane, mentre in Asia tale concentrazione sta aumentando velocemente. E si tratta di un tipo di crescita, come sottolinea il rapporto dell’agenzia Habitat dell’Onu, «molto al di là dei confini metropolitani, con la formazione di configurazioni urbano-regionali enormemente estese che si sviluppano lungo corridoi infrastrutturali che si irradiano per lunghe distanze dalle città vere e proprie». Le proiezioni demografiche per quanto riguarda il totale della popolazione urbana mostrano un forte incremento in tutte le zone a basso sviluppo del mondo, ma soprattutto in Asia.

Negli anni 80, solo Tokyo contava una popolazione superiore ai 20 milioni di abitanti, ed era considerata una specie di “mostruosità” urbana. Oggi, quella cifra, anche se anomala, non è più eccezionale: la metà- città sta guadagnando terreno e rappresenta un tipo nuovo di forma urbana, che si fonda interamente sulla mobilità. Esistono, tuttavia, due tipologie di meta-città: l’una più simile al prototipo della metropoli del XX secolo, con un centro di antico insediamento e una corona in espansione, e l’altra fatta di escrescenze, di baraccopoli e di abitazioni di qualità infima. Entrambe, però, poggiano largamente sulla mobilità, sebbene in modi diversi, per trasporto, consumo d’energia, inquinamento ed economia. Un altro punto rilevante è il ritmo con il quale questi cambiamenti stanno avvenendo. Da questo punto di vista, si deve tenere conto anche del fattore migrazione dei sistemi urbani dalla periferia verso il centro. Ovviamente, i consumi ambientali ed energetici aumenteranno o diminuiranno con un impatto maggiore sull’ambiente, soprattutto in termini di consumi energetici e, in particolar modo, di energia consumata per la mobilità. Molto dipenderà, naturalmente, dal tipo di norme che regoleranno le meta-città, ma non dobbiamo farci ingannare dai numeri assoluti che segnalano solo la concentrazione, non il consumo pro capite che è la misura corretta. Alcuni demografi sono prudentemente ottimisti, perché ritengono che la nuova organizzazione industriale, con un minore impatto ambientale, sarà più regolamentata di quella tradizionale. «La diminuzione del tasso di crescita della popolazione nelle aree rurali può rappresentare un fattore di protezione per l’ambiente – ha detto Joel E. Cohen, direttore del Laboratorio sulle Popolazioni delle Università di Columbia e Rockefeller – ma solo se la gente che vive nelle città comprende che è importante preservare le sorgenti, i terreni agricoli e le aree protette». Alcuni benefici dell’urbanizzazione possono essere controbilanciati dalla diminuzione del numero di persone per abitazione. Lo stesso autore precisa, però, che il calo demografico non fermerà l’espansione urbana. È chiaro che la tendenza all’urbanizzazione a livello mondiale dipende in larga parte dal trend demografico complessivo. Ma la relazione tra queste due tendenze non è sempre evidente. Nei tardi anni ’80 si è acceso un dibattito furibondo sulla cosiddetta “bomba demografica” responsabile della crescita di città ingestibili. In realtà, la popolazione stava già entrando nella “seconda transizione demografica”, eppure le città continuavano a crescere. È importante rilevare tempestivamente i cambiamenti del trend demografico, ma soprattutto la ricerca scientifica deve essere pronta a registrarli in modo da poter fare previsioni corrette.

Il punto fondamentale della questione resta lo stesso: le città stanno crescendo nonostante il rallentamento della crescita demografica. Ciò implica che, in molte aree del mondo, i sistemi agricoli autosufficienti – basati sull’impresa famigliare rurale di basso livello tecnologico – subiranno un rapido processo di peggioramento e di insostenibilità imprenditoriale, per cui si prevede che verso le meta-città, sia nelle zone a basso sviluppo che nelle zone a medio sviluppo, affluirà una quantità crescente di popolazioni emarginate, con un aumento sempre maggiore del livello di esclusione sociale. A questo va aggiunto soprattutto nelle aree Europee, l’alta percentuale di immigrati, che ogni giorno raggiungono il vecchio continente. Per quale motivo questi sviluppi, e il relativo dibattito che ne scaturisce, dovrebbero interessare la mobilità all’interno del sistema urbano evoluto? È una domanda retorica, ovviamente, e la risposta sta nel fatto che la crescita urbana dipende comunque da risorse energetiche che non sono infinite; l’estrazione di energia fossile a costi contenuti è destinata a diminuire progressivamente e a raggiungere asintoticamente la sua conclusione prima della metà di questo secolo. Alcuni studiosi della “società termo-industriale” prendono questa previsione molto sul serio, soprattutto per quanto riguarda la produzione di energia per il trasporto. Uno degli esperti che più si occupa di questo aspetto è Alain Gras, consulente di France Aviation Gras «I macro-sistemi tecnici sono vulnerabili da molti punti di vista: stazioni ferroviarie, aeroporti, centrali elettriche nucleari o idrauliche con il loro elevato potere distruttivo, pozzi petroliferi, raffinerie, ospedali, sono tutti punti sensibili. Le linee di comunicazione possono essere facilmente interrotte (cortocircuiti, blocchi, vandalismo, terrorismo). Anche i centri di controllo sono punti deboli, soprattutto dal punto di vista elettronico (cyber-guerra). Visto che la rete è parte integrante della nostra vita quotidiana, siamo particolarmente sensibili agli attacchi di “fluidi”, come acqua avvelenata, batteri immessi nei circuiti dell’aria condizionata, o virus immateriali trasportati via Internet».

Ma indubbiamente questo tremendo potenziale catastrofico deriva dal modo in cui la centralizzazione socio-tecnologica informa il mondo. All’inizio del secolo scorso, Klages – un filosofo tedesco – comprese che le città erano enormi campi umani che potevano essere distrutti dal cielo in un batter d’occhio (e, a quel tempo, le armi aeree o nucleari non erano state ancora inventate e nessuno aveva avuto ancora l’idea di concentrare in due torri l’equivalente della popolazione di un piccolo centro urbano). Una delle conseguenze dell’11 settembre avrebbe dovuto essere quella di indurci a capire che stiamo mandando il mondo in malora. Di ciò sono un simbolo le miniere di carbone o i pozzi petroliferi, che sono grandi cimiteri di una vita passata; ma il potere politico del mondo occidentale non ha occhi per questo genere di cose. Né il Club di Roma né il famoso picco di Hubbert, che annuncia un prossimo calo della produzione di petrolio a livello mondiale (eccetto che negli Stati Uniti, dove è iniziato nel 1970), ci inducono a cambiare strategia. Ora la globalizzazione si fonda su un’unica risorsa: il petrolio. Nessuno degli oggetti tecnologici usati per trasportare merci può funzionare senza petrolio e nessuna tecnologia alternativa è pronta, così come nessun’altra fonte energetica (soprattutto la improbabile macchina all’idrogeno). Le fluttuazioni correnti del prezzo del petrolio non devono ingannare: viviamo ancora in una società “termo fossile”. Si sta facendo un gran discutere dopo la catastrofe giapponese sulla inevitabilità del nucleare, ma ammesso che si possa contare su un’abbondante produzione di elettricità nucleare e su una forte riconversione verso l’automobile elettrica (senza contare gli attriti del periodo intermedio: in questi ultimi 5 anni, si stima che il mercato mondiale auto passerà da 60 milioni a 90 milioni di veicoli) rimane il fatto che il trasporto aereo, avendo scelto la traiettoria tecnologica del far volare il più pesante dell’aria invece del più leggero, sarà totalmente dipendente dagli idrocarburi. Le fluttuazioni dimostrano solo che, in generale, il mercato funziona e l’offerta di petrolio si adatta alle esigenze diverse. Se non cambiano le tendenze che abbiamo delineato, ci avviamo a una crescente polarizzazione tra e all’interno delle città. Queste saranno sempre più aperte a tutti, ma non tutti ci vivranno nello stesso modo e ciò è legato in parte alle regioni in cui sta avvenendo la più rapida urbanizzazione. Inoltre quando parliamo di città europea abbiamo in mente una città di dimensioni medie, soprattutto se paragonata alle megalopoli degli altri continenti ove sempre più si concentra in epoca contemporanea la crescita urbana, ad alta densità di popolazione e il cui centro, anche in ragione della sua origine storica, mantiene funzioni economiche, politiche, culturali e simboliche importanti. Oggi, questi caratteri, tendono a essere percepiti come positivi, tanto che attorno a essi si costruiscono modelli che tentano di coniugare la competitività economica all’equità sociale e alla salvaguardia dell’ambiente.

In quell’ottica di sostenibilità che è ormai il filo conduttore di tutte le azioni della Comunità europea, si è di recente consolidato un orientamento nelle politiche urbane che privilegia la “città compatta”, vale a dire una forma urbana contenuta nelle sue dimensioni e con un’elevata densità abitativa, perché permetterebbe un maggior ricorso ai sistemi di trasporto collettivi, avrebbe una maggiore accessibilità, ridurrebbe i tempi degli spostamenti e determinerebbe un minor consumo di suolo, tipico invece delle città più grandi che tendono costantemente a espandersi verso l’hinterland. Parimenti, giacché la città di medie dimensioni è percepita come ideale, si raccomandano politiche che favoriscano la redistribuzione della popolazione sul territorio, al fine di evitare la formazione di grandi agglomerazioni urbane e loro relative patologie.

4.    Politiche di sicurezza urbana

Iniziamo col definire il concetto di sicurezza urbana; che si è notevolmente modificato nel tempo. Non più legato solamente al fatto criminoso, ma ad oggi legato anche ai vari disagi di ogni singolo cittadino che vive il proprio spazio pubblico. Una definizione si sicurezza urbana ha destato molte critiche ed è quella del Decreto Ministero Interno 05.08.2008 (G.U. 09.08.2008), titolo “Incolumità pubblica e sicurezza urbana: definizione e ambiti di applicazione”, che recita, all’art. 1: “Ai fini di cui all’art. 54, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come sostituito dall’art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, per incolumità pubblica si intende l’integrità fisica della popolazione e per sicurezza urbana un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale”. Tali attività atte a difendere il rispetto delle norme della vita civile, poste esplicitamente in ambito della comunità locale, si sono di fatto tradotte nel riconoscimento di poteri di ordinanza emettibili da parte dei sindaci, i quali hanno esercitato tali facoltà decretando, in svariate città italiane, diversi divieti anti-accattonaggio o anti-prostituzione. Nell’anno 2011 è diversamente intervenuta la Corte Costituzionale la quale, con sentenza n.115/2011, ha bocciato il richiamato art.54, co.4, del testo unico degli enti locali (d.lgs 18 agosto2000, n.267 come modificato dal dl 92/2008) che permetteva appunto ai sindaci, in quanto ufficiali di governo, di adottare provvedimenti a contenuto normativo ed efficacia a tempo indeterminato per prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano la sicurezza urbana, anche fuori dei casi di contingibilità ed urgenza. In generale, possono essere presi in esame molti fattori che permettono di comprendere e valutare la domanda di sicurezza urbana; ad esempio il rischio di vittimizzazione, cioè la possibilità o meno di essere vittime di aggressioni o altri atti violenti, la percezione di insicurezza, spesso non veramente legata alla reale insicurezza, ma a fattori prettamente ambientali, quali scarsa illuminazione, o discontinuità dei percorsi urbani poco frequentati, i disagi percepiti da atti di degrado nei confronti della cura del c.d. quartiere-territorio, (graffiti, atti di vandalismo, scarsa pulizia delle strade, presenza o meno di vigilanza).

Al fine di arginare tali fenomeni, gli studiosi di sicurezza urbana hanno redatto linee guida in materia, concordando tutti nell’evitare, in primis, “spazi morti” (luoghi con scarsa se non assente frequentazione), che ovviamente favoriscono atti delinquenziali. Bisogna altresì volgere l’attenzione verso la c.d. sorveglianza spontanea, il senso di appartenenza, organizzazione e distribuzione chiara e visibile delle zone e dei luoghi; essendo tali atteggiamenti maggiormente inclini alla salvaguardia della sicurezza nella zona stessa. Se necessario ha supporto di tali procedimenti, si rende necessario inserire un sistema di videosorveglianza. Al fine di favorire una maggiore percezione di sicurezza, inoltre, anche il discorso dell’integrazione delle popolazioni marginali deve essere preso in considerazione. Infatti, è necessario al tal proposito progettare e definire anche sotto il profilo della sicurezza le eventuali sistemazioni, benché temporanee, di tali soggetti, favorendone l’inclusione all’interno del tessuto urbano e sociale. Conseguentemente, le strategie da mettere in atto durante la progettazione urbanistica dovranno tenere conto di vari requisiti, tutti elencati nelle moderne linee guida in materia, che riguardano la visibilità, intesa come linee di vista tra le abitazioni e lo spazio pubblico ma anche come buona illuminazione delle aree sia pubbliche che private; la territorialità, intesa quale spazio nel quale muoversi ed accessi per i non residenti, l’attrattiva, data dai materiali utilizzati, dall’arredo urbano e dalla cura che si ha di questi, la robustezza e funzionalità dell’arredo urbano e dei materiali di cui è composto ed infine la collocazione degli spazi pubblici in posizioni centrali ove sia possibile una sorveglianza diretta quanto spontanea.

Un altro fattore importante nel concetto di sicurezza urbana è la gestione dei perimetri delimitati (il muro). Riteniamo che sia questo il punto da cui dover partire per una riflessione seria sullo sviluppo (urbano, umano e, pertanto, sociale) della città e sulla sua sostenibilità. È necessario comprendere che il muro è un elemento naturale del sistema urbano, il quale produce due azioni significative: quella di dividere, di fratturare e di limitare, ma anche quella di proteggere, difendere e controllare. Il muro, infatti, è uno strumento di regolazione dell’organismo urbano e può essere visto non solo come un elemento di esclusione sociale, ma anche come un importante strumento di inclusione. Il muro – sia esso reale o inconscio – rappresenta un meccanismo di difesa contro ciò che è sconosciuto e che, di conseguenza, può rappresentare un pericolo; ed è proprio per questa ragione che lo scienziato sociale deve lavorare sulla sua struttura connettiva, piuttosto che cercare di abbatterlo. Viviamo oggi in una delle società più sicure che siano mai esistite, ma, nonostante questo, il senso di insicurezza pare essere sempre più forte. Con il fine di individuare i diversi metodi utilizzati per rafforzare il senso di sicurezza, attraverso interventi di riorganizzazione dello spazio pubblico e relativa connettività, l’analisi permette, in particolar modo, di affrontare lo studio delle componenti che generano la domanda di sicurezza e le azioni messe, attualmente, in atto per garantire una adeguata politica per la sicurezza urbana. Questo, supposto, in relazione alle problematiche emergenti che non possono essere ricondotte, in modo univoco, ai fenomeni criminali, ma abbracciano questioni relative al disordine urbano, ai conflitti d’interesse nell’uso dello spazio e del tempo della città e alla percezione dell’insicurezza. Da ciò nasce il confronto con i nuovi strumenti della pianificazione partecipata, i programmi urbani complessi costituiscono una “generazione” di strumenti per il governo delle trasformazioni urbane che grande importanza ha rivestito (e tuttora riveste) nel nostro panorama nazionale. La loro formazione è spesso stata occasione per una “rivisitazione” o per una nuova elaborazione degli strumenti urbanistici in vigore. Appare altresì “forte” l’esigenza di coinvolgimento delle popolazioni nella costruzione di politiche urbane, la centralità della partecipazione è connessa al problema della qualità urbana (delle periferie, ma non solo), e dell’efficacia in relazione al miglioramento della qualità insediativa delle trasformazioni previste dai piani, sia in termini funzionali e formali che in termini sociali e di percezione dello spazio (S. Soppa, 2005). Un passaggio chiave nel processo di revisione degli strumenti di intervento sulla città pubblica sta quindi nell’integrazione tra politiche di riqualificazione (meglio rigenerazione) urbana e progetto urbano: il campo   d’azione sulle periferie e sulla città pubblica non può più essere uno specifico settore, bensì uno specifico territorio. I problemi devono infatti essere letti rispettandone la complessità, così come le soluzioni vanno elaborate chiamando in causa tutti i settori che di volta in volta si rivelano maggiormente efficaci. Ne consegue la rilevanza del coinvolgimento di un ampio spettro di attori locali (istituzionali, sociali, economici) nel disegno operativo dei progetti e delle politiche come condizione del loro successo.

5.    Sicurezza urbana, sfida per le politiche locali

Le ricerche sulla sicurezza urbana sono orientate secondo tre filoni principali: quello relativo alla pubblica sicurezza (organizzazione delle forze dell’ordine e della giustizia), quello sociale (intervento sugli strati disagiati della popolazione) e quello ambientale (aspetti fisici che rendono le strade, i parchi, gli spazi aperti e pubblici in generale più sicuri). Ovviamente ciò che interessa più da vicino è quello sociale e quello ambientale che indirizzano ai fattori che rendono l’ambiente urbano più vivibile (e non abitabile) e più sicuro, attraverso interventi di riqualificazione dello spazio fisico e di sostegno alle comunità locali per favorire meccanismi di controllo spontaneo del territorio. L’attivazione di processi di progettazione partecipata, che coinvolga dinamicamente gli abitanti nella costruzione e gestione dei loro spazi di vita acquista un ruolo centrale nella riscoperta e valorizzazione delle risorse locali. Il diritto alla sicurezza è un diritto umano fondamentale che oggi è particolarmente sentito nelle società urbane metropolitane, non solo nei ceti medi della popolazione (gli alti sono ben protetti), ma anche e più motivatamente nei ceti popolari che in molti casi convivono o occupano spazi particolarmente degradati, violenti e pericolosi, spazi simbiosi delle periferie. La domanda di sicurezza entra in frizione con la domanda di uso della città ed il diritto alla sicurezza con il diritto alla città: diritto di poter vivere la città in ogni sua parte e momento, senza limiti spaziali o temporali. La città che vive senza mai fermarsi, la città around the clock, produce un fabbisogno aggiuntivo di sicurezza, così come problemi maggiori di sicurezza vengono generati dal desiderio crescente di frequentare in ogni ora zone della città che una volta erano considerate off limits. L’uso della città senza limiti spaziali o temporali da parte di una donna richiede, per esempio, livelli di protezione aggiuntivi   e determina un aumento del carico di domanda di sicurezza sulle istituzioni e sul sistema. Questo diritto alla città, inoltre, è considerato un diritto basilare che, in quanto tale, appartiene a tutti, indipendentemente da età o genere e non è rinunciabile in nome della sicurezza. Inoltre, bisogna dare concrete risposte sociali da parte degli attori coinvolti nei processi decisionali delle città contraddistinguendosi per la prossimità, l’immediatezza, l’efficacia e la cooperazione. La causa principale della violenza urbana non è la povertà ma la disuguaglianza sociale; insieme generano, da un lato “gruppi vulnerabili” dall’altro “gruppi minacciati”. Tra i primi (poveri ed emarginati, disoccupati e precari, etc.) nascono comportamenti di violenza “espressiva” (ad esempio giovani frustrati al contemplare ciò che la città gli offre, gli risulta inaccessibile) da questi emergono i cosiddetti “collettivi della paura” ovvero quella parte di popolazione che incomincia a praticare la strada della delinquenza. Detti comportamenti sono solamente parte di una minoranza della popolazione più povera ed emarginata; questo non implica che la percezione sociale “criminalizzata” sia estesa ingiustamente all’intera collettività e agli interi quartieri, questa diventa una vera sfida per le politiche urbane e socio-culturali. Tutto ciò dipende da scelte politiche di ampio raggio che vanno aldilà delle singole competenze specifiche delle singole competenze dei governi locali. Del resto va anche sottolineato che, un’attiva politica di spazi pubblici di qualità che favorisce la mixitè di relazioni sociali e funzionali (edilizia commerciale, uffici pubblici ed attrezzature, etc.), di animazione culturale ed azione preventiva su bambini ed adolescenti di strada, di formazione continua ed attrazione di attività che creano posti di lavoro, ed in particolare di azioni rivolte verso gruppi di persone vulnerabili e a rischio, può contribuire efficacemente a creare un ambiente sicuro ed a uno spazio sociale omogeneo. Le politiche d’inserimento sociale sono all’ordine del giorno, proprio per questo il Forum di Porto Alegre ha creato un movimento chiamato “Autorità locali per l’inserimento sociale”. Le distinte forme di “esclusione”, (territoriale, sociale, culturale, di genere e di età, di orientamento sessuale o religioso, di tossicodipendenza) favoriscono l’ingiusta “criminalizzazione collettiva” che diventa paura dello stare insieme. Le politiche d’inserimento sociale si scontrano con problematiche complesse si tratta di politiche trasversali, multidisciplinari e multidimensionali, di:

urbanistica. Operare sui quartieri periferici e centrali degradati, legalizzare e rigenerare gli habitat marginali, potenziare i servizi pubblici nelle aree marginali, promuovere la partecipazione degli abitanti per la riqualificazione degli spazi pubblici e il miglioramento delle condizioni abitative, introdurre la mixitè sociale, incrementare la qualità architettonica delle infrastrutture dando dignità e visibilità alle zone a rischio:

-cultura. Le infrastrutture e la “qualità progettuale/architettonica”, la creazione di un ambiente sicuro e la promozione di attività attrattive per le popolazioni non residenti, hanno una chiara dimensione culturale che favorisce l’integrazione. Bisogna scommettere sulla qualità e bellezza di una nuova offerta urbana, dotandola di un “potenziale simbolico” che compia una funzione di coesione dell’identità urbana.

-azioni socio-economiche ed educative. L’attrazione di attività, la creazione di posti di lavoro, programmi di appoggio alle micro-imprese locali e alla formazione continua, azioni concrete contro l’evasione scolastica, programmi di formazione per giovani e donne in particolare,

innovazione politica e legalità. Relazioni con gli ambienti esclusi e pericolosi attraverso azioni concrete da parte dei governi nazionali e della pubblica amministrazione locale.

L’esistenza di popolazione “senza documenti” o senza un domicilio legale, però di fatto residente, richiede forme agili di regolarizzazione fino al riconoscimento di tutti i diritti dei residenti. L’azione della pubblica amministrazione dovrebbe orientarsi verso politiche di interventi integrati nella quale le mission sociali, di riabilitazione e riqualificazione degli spazi pubblici, di sicurezza urbana, di reinserimento sociale della popolazione poco integrata, di promozione economica e culturale dovrebbero essere prioritarie. Anche la “Ridefinizione” è una strategia spesso usata in modo congiunto con altre strategie. Si tratta di un intervento che prevede la riappropriazione di aree periurbane e zone di frangia degradate con aree intercluse prive di qualità e scarsa integrazione con il territorio aperto. Tale strategia è finalizzata alla ricostruzione del fronte urbano e alla riconnessione degli spazi interclusi con il territorio aperto, mediante la valorizzazione e il ripristino delle reti ecologiche esistenti, la riconversione dei manufatti dismessi, il recupero e la creazione di connessioni che garantiscono la permeabilità e la fruibilità e del margine urbano. L’assenza di un unico programma integrato, che articoli in modo concreto ed operativo le attuazioni urbanistiche e sociali, è senza alcun dubbio il punto debole di questi processi di trasformazione. E’ in questo quadro attuativo dove si svolge la vera sfida per governi locali, che se da un lato si mostrano meglio collocati per prossimità e per capacità di attuare la multidimensionalità, dall’altro e solo in pochi casi, hanno competenze dirette nell’attuazione di azioni pubbliche imprescindibili per lo sviluppo di politiche trasversali, multidisciplinari e multidimensionali. In ogni caso il riferimento principale nell’ambito dell’Unione Europea restano i Governi Centrali, le strategie di cooperazione interamministrativa, la gestione trasversale e la cooperazione pubblico-sociale-privata, restano strumenti che possono aiutare a mitigare le debolezze dei governi locali. Anche se per un’attenta gestione di queste politiche pubbliche resta imprescindibile una maggiore capacità, competenza organizzativa ed economica dei governi locali nell’ambito del disegno e dell’implementazione di nuove mission urbane.

6.    Il diritto urbanistico e la tutela dell’ambiente.

Il diritto urbanistico consta nell’insieme delle norme positive e degli istituti giuridici regolanti le attività di trasformazione ed uso del territorio, poste in essere sia da soggetti privati sia da soggetti pubblici. All’interno di questa disciplina appena definita, vi è la fondamentale attività costruttiva, cioè l’edilizia. L’edilizia, da un punto di vista normativo, è assoggettata al rispetto della pianificazione urbanistica e dei suoi strumenti. Essenzialmente il piano regolatore edilizio ed il permesso di costruire, formano una specificazione di quanto, più in generale, stabiliscono i piani urbanistici sovraordinati. Dunque potremmo definire l’urbanistica come la materia che stabilisce l’utilizzo migliore dei suoli e ne determina le potenzialità edificatorie, mentre l’edilizia si assicura che vengano rispettate gli standard di sicurezza, salubrità ed efficienza energetica delle costruzioni. In Italia il piano regolatore è stato introdotto per la prima volta dalla legge 25 giugno 1865 n. 2359 in materia di espropriazione di pubblica utilità. L’adozione di tale piano era prevista solamente per comuni con oltre 10.000 abitanti, al fine di agevolare ampie espropriazioni per il miglioramento igienico e stradale di grandi centri abitati. Successivamente, nel 1935, è stata introdotta, mediante la legislazione di tutela sismica, la necessità di un’autorizzazione amministrativa per le attività edilizie. Per riscontrare però una regolamentazione più organica bisogna attendere il 1942, con l’emanazione della legge 17 agosto n. 1150, che ha stabilito un articolato insieme di piani gerarchicamente ordinati, che sottolinea inoltre la necessità, imprescindibile se non per gli interventi oltre le zone abitate, di dotarsi di licenza edilizia ogni qualvolta si voglia ampliare una costruzione già in essere o edificarne una ex novo. Successivamente, nel gennaio del 1977, con la legge Bucalossi il legislatore ha introdotto lo strumento della concessione edilizia per ogni trasformazione edilizia ed urbanistica del territorio, al fine di risolvere alcune problematiche insorte di rilievo Costituzionale. Nella Costituzione, infatti, riscontriamo due profili differenti in merito alla materia urbanistica: la tutela della proprietà (prevista nell’art. 42 Cost.) e dell’iniziativa economica (prevista dall’art. 41 Cost.), tutele sacrificabili a fronte di interessi maggiormente rilevanti in materia della disciplina territoriale. Inoltre, a livello sempre costituzionale, vi è il riconoscimento dell’articolazione della disciplina e delle proprie fonti in diversi livelli: quello statale, regionale e locale. Recentemente, a tal proposito, la legge costituzionale 18 ottobre 2001 n.3 ha modificato il Titolo V della Costituzione, dando un profilo orientato al federalismo ed inserendo il principio di sussidiarietà. Va ricordato, a tal proposito, che prima della riforma succitata le Regioni godevano di competenza legislativa, da esercitarsi nei limiti della legislazione statale, unicamente per le materie indicate nell’art. 117 della Costituzione, testo previgente. Oggi, a seguito della modifica di tale articolo, sono stati stabiliti tre ambiti differenti: la legislazione statale esclusiva, prevista dal comma 2 del novellato art. 117; la legislazione concorrente, prevista dal comma 3 del suddetto articolo che stabilisce, spetta alle Regioni la potestà normativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservati sempre alla legislazione statale. La generale competenza legislativa regionale, infine, prevista dal comma 4 sempre del novellato art. 4, operante, per esclusione, per tutte le materie non espressamente riservate allo Stato ed assoggettata alla Costituzione, all’ordinamento internazionale, come stabilito al comma 1 art.117 comunitario e Costituente. Possiamo concludere che, attualmente, mediante cospicua legislazione regionale, si è giunti ad una parziale modifica del recente T.U. delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, approvato con D.P.R. 6 giugno 2001 n.380. Per quanto concerne, infine, i rapporti tra urbanistica e tutela ambientale, tale disciplina dovrebbe, a rigor di logica, occuparsi anche di questo aspetto della tutela del territorio. Infatti, da un punto di vista legislativo, si riscontrano alcuni interventi tesi a tale scopo, come ad esempio l’art. 80 D.P.R. n. 616 del 1977 che stabilisce che le funzioni amministrative relative alla materia urbanistica concernano la disciplina dell’uso del territorio, comprensiva di ogni aspetto riguardante la salvaguardia e trasformazione dei suoli, nonché la protezione dell’ambiente.

Recentemente, anche nell’art. 20 T.U. degli Enti locali viene riconosciuta, all’interno dei contenuti di assetto territoriale operato dalle Provincie, la possibilità interventi idrici, geologici e forestali per il consolidamento del suolo e la conseguente individuazione di aree adatte alla istituzione di parchi e riserve naturali. Vero è che, nonostante questo incipit, non c’è mai stata, da parte del legislatore, una vera ed univoca volontà di unificare ed incorporare le materie, lasciando sempre adito ad interpretazioni con esiti a volte nocivi dell’ambiente. Per ovviare a ciò, si rendono costantemente necessari accordi e coordinamenti tra le varie autorità competenti, con il risultato di complessità e lentezza noto a tutti. L’auspicio è che si intervenga in maniera più organica e funzionale al fine di garantire, di fatto, una piena attuazione degli impegni che il nostro paese si è assunto, su vari fronti, nel settore della tutela dell’ambiente.

7.    Policy per la sicurezza urbana attraverso la riqualificazione.

Da questo capitolo si possono trarre alcune best practice generali, da seguire per lo sviluppo di progetti di riqualificazione urbana che mirino anche, a migliorare la sicurezza urbana. In un progetto di riqualificazione, è opportuno che ogni approccio, abbia come obiettivo la sicurezza delle proprietà e delle persone, al fine di generare sicurezza a vantaggio di tutti. Di fatto, soluzioni basate sullo sviluppo di aree sicure al loro interno (ma in opposizione con il resto della comunità) sono percepite come fonte di insicurezza e tendono a rinchiudersi e a generare esclusione. I “disegni progettuali” a livello urbanistico (quindi a livello di progettazione a grande scala) sono: – garantire l’accessibilità ed evitare le enclaves; – creare vitalità mischiando le funzioni; – creare densità urbane adeguate per garantire sorveglianza spontanea; – creare mix socioeconomici ed evitare la segregazione; – evitare le barriere fisiche. Strategie a livello di urban design (e quindi livello di progettazione più di dettaglio e di arredo urbano) sono: – continuità di percorsi e continuità delle trame urbane; – coordinamento degli orari per garantire la continuità della sorveglianza spontanea; – visibilità (chiarezza dell’impianto e dei percorsi, illuminazione ecc.). Oltre a queste indicazioni di carattere strettamente legato al “disegno” urbano, se ne individuano molte altre di carattere più generale, tra cui riportiamo qui le tre più importanti:- il rafforzamento dell’identificazione degli utenti con il luogo ed il loro senso di appartenenza migliora la percezione di sicurezza e la prevenzione del crimine, perché la gente sviluppa un senso di rispetto e protezione per i luoghi che sente propri; -la vitalità delle strade e degli spazi pubblici è uno dei fattori principali nella prevenzione del crimine perché l’uso degli spazi pubblici produce sorveglianza spontanea. La presenza di funzioni miste (commerciale, residenziale, ricreative ecc.) e attività diversificate implica ritmi d’uso diversi, che forniscono sorveglianza spontanea continua; – la continuità delle trame urbane e dei percorsi e un impianto chiaro degli spazi pubblici migliorano l’orientamento degli utenti e la loro sensazione di sicurezza. La visibilità dei percorsi pedonali dagli edifici e dalle strade incide sulla prevenzione del crimine e migliora la percezione di sicurezza. Un dato che emerge da un confronto tra i casi studio analizzati qualitativamente, è che le esperienze italiane più riuscite sono centrate sulla riqualificazione di contesti urbani consolidati attraverso interventi “spot”, mentre gli interventi di riqualificazione a più vasta scala incontrano grosse difficoltà ad essere avviati, ma soprattutto ad essere portati a termine. In Europa invece, soprattutto Francia ed Inghilterra, anche le esperienze di rigenerazione di interi isolati, quartieri o distretti riescono con successo. I motivi di queste differenze sono molti, ma il più rilevante è forse l’incapacità da parte dell’amministrazione pubblica, sia statale che locale, di portare a termine processi di intervento sul territorio che abbiano una durata temporale superiore ad una legislatura (ed a volte anche meno). Interessi politici ed economici e rapporti poco trasparenti tra i due vincolano qualsiasi attività di trasformazione urbana ad una serie di figure e condizioni particolari e temporali svanite le quali, l’intero processo non risulta più vantaggioso e rimane abbandonato. L’elemento che più distanzia l’Italia dai paesi come Inghilterra, Francia o Germania, è la diversa percezione che i cittadini hanno dell’amministrazione pubblica. Si tratta di una tradizione che ci portiamo ancora oggi e che difficilmente permetterà di risolvere la contraddizione per cui l’amministrazione pubblica viene vista come un nemico da evitare e il “farsi furbi” per aggirare le regole diviene un elemento di merito. In questo contesto, solo processi di rigenerazione urbana a breve termine e di piccole dimensioni possono avere successo, ed è quello che avviene, a volte con risultati eccelsi grazie comunque alle competenze degli esperti Italiani. Resta il rammarico di cosa si potrebbe fare se tali competenze fossero supportate da un rapporto pubblico/privato più saldo e moderno. Per quanto concerne le esperienze nelle aree metropolitane europee, ciò che risulta utile sottolineare è il fatto che alcune di esse hanno introdotto nuove forme istituzionali di governo metropolitano, riducendo in tal modo i frazionamenti amministrativi e le visioni eccessivamente localistiche. Tra le principali funzioni ricoperte dai nuovi enti metropolitani alcune sembrano ricorrenti; tra queste: a) la promozione dello sviluppo economico, dell’innovazione, della ricerca. b) la promozione dello sviluppo sociale e culturale. c) la pianificazione territoriale di area vasta. d) lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi di trasporto. In questo quadro appare fondamentale che l’evoluzione dello spazio urbano venga accompagnata da progetti di indirizzo e orientamento, che allontanino il rischio di una evoluzione disorganica del tessuto urbano e favoriscano l’integrazione delle nuove polarità con il territorio circostante. In un quadro generale, la valutazione dell’impatto è stata condotta, di pari passo con una analisi della progettualità e dello stato di avanzamento dei programmi, su una serie di domande valutative poste in sede di progetto, sulla base della progettualità effettiva espressa dai programmi attivati nei diversi contesti urbani, anche in base alla disponibilità di dati ed interlocutori disponibili sul campo (il che si è rivelato, in realtà, un aspetto particolarmente problematico). La “memoria storica” di strumenti di sviluppo passati di mano in mano a più amministrazioni comunali si è infatti spesso persa, e rintracciare un interlocutore in grado di dare una panoramica generale si è rivelato molto difficile, talché la valutazione di impatto si è dovuta basare prevalentemente su elaborazioni condotte sui dati desk disponibili su scala urbana). In particolare, per i contratti di quartiere, le tematiche indagate sono state riferite al degrado e disagio abitativo, ai servizi pubblici, infrastrutture e verde urbano, ed alla coesione sociale e benessere economico, in linea con le domande valutative, che erano le seguenti:

  • l’effetto dei contratti di quartiere sul degrado delle costruzioni e dell’ambiente urbano;
  • l’effetto sulla carenza di servizi ed infrastrutture;
  • la scarsa coesione sociale;
  • la presenza di impianti produttivi a rischio rilevante di

Tramite un modello statistico basato sui dati comunali messi a disposizione dall’ultima rilevazione censuaria dell’Istat, è stato possibile indagare alcuni fenomeni, come in particolare, l’investimento per contrastare il degrado e disagio abitativo. Su tale elemento, perlomeno in termini di offerta di alloggi, lo strumento sembra avere, in generale, una certa efficacia, atteso che, il numero di abitazioni, su scala regionale, cresce, ma nei Comuni oggetto di contratto di quartiere, tale incremento è sistematicamente superiore (+12,5% complessivamente). Anche al netto dell’incremento medio nazionale, che in qualche modo rispecchia politiche abitative condotte su base nazionale e quindi esterne al contratto di quartiere, il trend di incremento delle abitazioni permane positivo. Rispetto alla riqualificazione delle abitazioni esistenti, altro intervento molto rilevante, è stato quello di ricorrere a delle proxy, aggregate in un indicatore sintetico di qualità abitativa, e mettere a confronto il patrimonio abitativo dei Comuni soggetti a contratto di quartiere con quello di altri Comuni, non beneficiari di tale strumento, analoghi per ubicazione geografica nella stessa provincia, e dimensione demografica (campione di controllo). L’ipotesi è quindi che se tale indicatore è migliore nell’area dei Comuni con contratto di quartiere, rispetto al campione di controllo che esprime Comuni “simili”, vi sia stata una qualche influenza di tale strumento sul miglioramento del patrimonio edilizio, agendo su un miglioramento di quello pubblico e popolare. Da tale indagine indiretta, si è quindi rilevato che non vi sia quasi nessuna differenza fra questi due campioni, per cui non è possibile, in base ai dati disponibili, rilevare un effetto significativo di riqualificazione immobiliare indotto dai contratti di quartiere di seconda generazione. Oltre tali progetti vanno presi in considerazione altrettanti, percorsi di sperimentazione di nuove pratiche di intervento e di programmazione, che stanno sostanzialmente cambiando modalità e contenuti dell’azione sulla città e sul territorio. Ad una stagione segnata da difficoltà tecniche e normative nella definizione degli assetti insediativi e nel controllo dei processi di trasformazione urbana, segue oggi in molte città un diverso dinamismo nella costruzione di programmi di riqualificazione urbana, nella formulazione di proposte di rilancio politico ed economico delle città, di definizione formale e politica di progetti urbanistici, che in molti casi risultano non solo di nuova concezione, ma soprattutto arricchiti delle più recenti istanze di carattere partecipativo, ecologico, securitario, e sostenibile. A questo processo si accompagna un’ormai radicata presa d’atto della profonda trasformazione dei processi di accrescimento urbano, contraddistinti da un costante rallentamento delle dinamiche demografiche e da una trasformazione delle forme insediative

– tra processi di dispersione e di urbanizzazione diffusa e rafforzamento dei centri di minore dimensione – che si traducono in nuove gerarchie spaziali ed in nuove relazioni territoriali: un ulteriore fattore che spinge a cambiare anche i tradizionali rapporti tra le città e le regioni e, in un clima di relativa competizione territoriale, stimolando nuove forme di “protagonismo” istituzionale. Nelle dinamiche dello sviluppo urbano, comunque, per quanto da tempo fosse riconosciuto il sostanziale cambiamento delle condizioni generali, solo in anni più recenti si sono prodotte modifiche significative delle politiche di intervento, sollecitate anche da alcuni fattori di una certa rilevanza, in tema di sicurezza. Indubbiamente va riconosciuto come determinante il ruolo ed il peso di alcune iniziative di carattere comunitario, ma soprattutto dei Fondi strutturali dell’Unione Europea, non solo come incentivo economico all’intervento territoriale, quanto per le nuove modalità imposte nella costruzione dei progetti, il loro montaggio finanziario, le forme di concertazione tra le diverse forze sociali ed economiche, i processi valutativi che si sono mostrati un elemento decisivo per la verifica di fattibilità e per la concretizzazione successiva dei progetti. Pur con notevoli difficoltà, il meccanismo ha innescato processi di innovazione e di “professionalizzazione” nella Pubblica Amministrazione, sviluppando nuove attitudini e nuovi comportamenti che nel nuovo quadro normativo si sono tradotti anche in una diversa e incalzante creatività progettuale sul territorio. Non da meno il ruolo della Direzione Generale di Coordinamento Territoriale del Ministero dei Lavori pubblici prima e del Ministero per le Infrastrutture e dei Trasporti oggi, che sin dagli inizi degli anni ’90 ha promosso non solo nuovi incentivi finanziari (attribuiti anch’essi in base a processi di valutazione e verifica), quanto l’introduzione di nuove pratiche di pianificazione e soprattutto di nuovi strumenti di intervento urbanistico che – dai Programmi integrati di recupero ai Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile del territorio e ai rinnovati Contratti d quartiere – hanno rappresentato un momento importante per la riqualificazione di ambiti urbani interessati da fenomeni di degrado sociale, economico e delinquenziale; per il rilancio della progettazione urbana e l’azione di rigenerazione di tessuti urbani particolarmente compromessi dalla dismissione industriale e dal degrado edilizio; per la modernizzazione della città non solo in termini di attrezzature ed infrastrutture, ma anche in termini di nuove funzioni strategiche, di forme ed architetture “contemporanee”. Dal Nord al Sud del nostro Paese, il numero dei progetti e delle iniziative connesse (promosse da istituzioni territoriali ai diversi livelli, ma anche in numero crescente da un “ritrovato” settore privato propositivo e dinamico) – è andato crescendo notevolmente nel corso degli ultimi anni, rappresentando al di là delle difficoltà dettate dalla congiuntura economica nazionale ed internazionale e da alcune inerzie che pur rimangono nella costruzione della città italiana, una delle stagioni più interessanti dello sviluppo urbano italiano.

La grande attenzione allo sviluppo di nuove tecnologie costituisce , oggi, un fattore non indifferente di trasformazione delle politiche di intervento urbano, perché se da un lato determina l’acquisizione di dati ed informazioni necessari ad azioni più appropriate ed incisive sul territorio (come mostrano i sempre più diffusi e raffinati sistemi informativi territoriali ormai utilizzati in diversi settori della vita amministrativa degli enti territoriali, anche per il solo aggiornamento “in tempo reale” delle modifiche subite dal territorio urbanizzato), dall’altro permette alle amministrazioni di fornire nuovi servizi a cittadini, nuove forme di comunicazione (delle attività amministrative, dei documenti prodotti), nuove modalità di informazione e sensibilizzazione sui problemi della collettività locale. Altri fattori, riguardanti la sicurezza urbana, hanno indubbiamente concorso nella trasformazione dei processi di sviluppo urbano, processi che sembrano meritare una rinnovata attenzione ad ampio raggio sui fenomeni e sulle dinamiche di trasformazione degli assetti insediativi, sulle nuove iniziative normative e sulle modalità e progetti di intervento, sulle diverse e più innovative pratiche di pianificazione che contraddistinguono questa fase. In questa prospettiva, la conoscenza di quanto sta accadendo nel nostro Paese può essere utile non solo per avere un quadro del mutamento in corso, quanto soprattutto per suggerire sentieri di sviluppo non ancora intrapresi, per stimolare forme di progettualità locale, l’individuazione e la valorizzazione delle risorse locali per promuovere forme di sviluppo urbano innovative e ad alto impatto sociale ed economico. Le Città occupano un posto centrale nell’agenda europea di sviluppo sostenibile e coesione sociale. Questa priorità strategica territoriale, sostenuta dal Parlamento Europeo, dal Comitato delle Regioni e dalla Commissione europea, che incrocia molti degli ambiti di intervento di Europa 2020 – dall’inclusione sociale alla crescita sostenibile − ha trovato una traduzione operativa nella proposta di Regolamenti per le politiche di coesione. L’identificazione delle aree urbane come scala di intervento cruciali per lo sviluppo regionale costituisce l’esito di un lungo percorso di elaborazione politica e culturale e di sperimentazione progettuale avvenuto sia a livello comunitario che nazionale. I riferimenti essenziali per l’impostazione dell’Agenda urbana a livello nazionale sono stati i documenti di orientamento che costituiscono l’acquis urbain communitaire. In Italia – come in Europa – le aree urbane sono i contesti in cui convivono in maniera più esplicita che altrove risorse e criticità, asset rilevanti e nodi irrisolti per lo sviluppo regionale. Tale condizione ha rafforzato nel tempo l’esigenza di adottare un approccio fondato su un più efficace coordinamento di strategie, obiettivi e politiche alle diverse scale di intervento: da un lato, identificando le città come ambiti di applicazione preferenziale per un approccio integrato alla programmazione in cui gli aspetti spaziali, settoriali e temporali dell’azione progettuale siano fortemente coordinati anche attraverso il coinvolgimento degli stakeholders locali (in altre parole, riconoscendo come il montaggio di interventi differenziati, di tipo materiale e immateriale, e il valore aggiunto che da essi può generarsi, se inseriti in una strategia globale e condivisa, costituisca l’unico antidoto per fronteggiare problematiche complesse e talvolta conflittuali quali quelle che si riscontrano all’interno delle città); dall’altro, orientando ulteriormente verso le città il focus politico e finanziario delle politiche di coesione regionale. Questa impostazione è influenzata dal perseguimento degli obiettivi della strategia Europa 2020 che attribuisce alle politiche urbane ulteriori ed ambiziosi compiti rispetto a quelli già praticati nei precedenti cicli di programmazione, quali il contrasto agli effetti sociali della crisi economica, il supporto ad azioni più efficaci in tema di cambiamento climatico, l’accompagnamento a processi di riforma e riorganizzazione istituzionale. Ciò comporta il rinnovamento dell’approccio place-based che ha già caratterizzato alcune generazioni di politiche urbane alla luce di alcune rinnovate domande di cambiamento, attraverso un ulteriore rafforzamento dell’approccio integrato in settori di intervento fortemente trasversali, quali il capitale umano, l’innovazione sociale, l’innovazione tecnologica, le politiche energetiche, e quelle sull’immigrazione. In Italia, le tematiche e gli indirizzi che connotano la nuova Agenda urbana europea si declinano in relazione alla presenza di alcuni elementi caratterizzanti il modello di sviluppo territoriale del paese:

  • il modello del «vivere urbano» è quello tendenziale per la maggioranza della popolazione e genera costantemente nuove istanze per qualità della vita, organizzazione sociale e gestione sostenibile delle risorse di queste collettività;
  • le città sono il luogo collettivo principale della diversificazione dei percorsi di intere comunità in cui spesso gli effetti di un rapido sviluppo economico convivono con situazioni di emarginazione e disagio;
  • il sistema produttivo si concentra sempre su segmenti di attività che trovano nelle città un momento di produzione e di indirizzo strategico dell’attività

Di fronte a tali fabbisogni e sfide, la legge di riforma costituzionale e amministrativa che prevede la costituzione delle Città metropolitane e, più in generale, la modifica delle province, assegna un ruolo sempre più importante ai Comuni e alle loro Unioni, in territori molto più ampi di quelli delimitati dai confini amministrativi abituali. Tuttavia, i vincoli di finanza pubblica e la riduzione dei trasferimenti – in un contesto di riforme incompiute su fiscalità locale, decentramento e riorganizzazione degli enti locali – impediscono non solo di dare piena valorizzazione agli investimenti avviati nel recente passato ma anche, in prospettiva, di mantenere, gli attuali livelli nei servizi erogati(sociali, culturali, e ambientali, peraltro sempre più a carico del terzo settore) e nella manutenzione ordinaria del patrimonio di infrastrutture esistente. In tale contesto, peraltro, l’urgenza di raccogliere liquidità attraverso la cessione di diritti edificatori alimenta il rischio di usi impropri e inconsistenti degli spazi urbani e del suolo. La politica di coesione comunitaria non può certo costituire l’unico contesto di policy che interviene su questi temi ma, intende certamente contribuire a conseguire importanti risultati, quali:

  • il rafforzamento il ruolo delle istituzioni di governo urbano come soggetti chiave delle strategie di investimento locali, del dialogo interdisciplinare e inter-istituzionale, così come della gestione dei servizi collettivi;
  • la corretta declinazione territoriale degli strumenti progettuali per arrivare a risultati condivisi;
  • la concretezza attuativa delle innovazioni tematiche previste dai Regolamenti per i Fondi Strutturali Europei (es. inclusione sociale);
  • una sintesi efficace ed effettiva tra gli investimenti aggiuntivi e le politiche ordinarie;
  • esperienze concrete per favorire il percorso di avvio delle città metropolitane e della riforma del livello locale dell’Amministrazione;
  • la garanzia del coinvolgimento dei cittadini, della società civile e dei diversi livelli di governo competenti nella definizione e implementazione degli investimenti;
  • la limitazione dell’occupazione di suolo, l’espansione urbana incontrollata e l’impermeabilizzazione dei terreni. A tal fine, si ricorda come – sebbene in modo diverso in ciascuna Regione – attraverso gli strumenti di pianificazione ordinaria territoriale e urbana, si debba promuovere la necessità di costituire “piani a crescita zero”, proprio nell’intendimento qui enunciato atto a riqualificare aree ed edifici dismessi e/o sottoutilizzati.

Le sollecitazioni dell’Unione Europea sostengono lo sviluppo urbano sostenibile prevedendo azioni integrate che sappiano far fronte alle sfide economiche, ambientali, climatiche, demografiche e sociali che si pongono nelle aree urbane, in linea con le disposizioni specifiche dei Regolamenti europei (ex. Art. 7 del Reg. CE 1301/2013). A queste indicazioni, l’Italia intende rispondere con una strategia specifica per le città e per il patrimonio che esse rappresentano, facendo tesoro della esperienza accumulata negli ultimi due cicli di programmazione che ha visto risultati positivi e alcuni insuccessi. Su queste basi sono stati individuati i cardini della strategia comune dell’Agenda urbana per i fondi comunitari 2014- 2020, che si articola in tre driver di sviluppo – ovvero ambiti tematici di intervento prioritari in parte fra loro integrabili – che sono rilevanti anche per le funzioni assicurate dalle città al territorio più vasto che gravita su di esse. La strategia comune dell’Agenda urbana si completa di un quarto driver che potrà essere definito da ciascuna Regione con riferimento alle peculiarità del proprio territorio e della programmazione in essere. Di seguito i tre driver tematici comuni dell’Agenda urbana, che tengono conto delle sfide economiche, ambientali, climatiche, demografiche e sociali cui le azioni per lo sviluppo urbano sostenibile intendono far fronte ai sensi dell’Art. 7 del Reg. UE 1301/2013, già proposti nel documento “Metodi e obiettivi per un uso efficace dei fondi comunitari 2014-2020” di avvio, del confronto partenariale e discussi e approfonditi in varie sedi con amministrazioni regionali, comunali e con i partner socioeconomici.

Tenendo conto delle sfide economiche, ambientali e climatiche delle città, verranno sostenuti l’avvio (o la prosecuzione o il completamento) dei piani di investimento per il miglioramento dell’efficienza e dell’efficacia delle infrastrutture di rete e dei servizi pubblici delle aree urbane con ricadute dirette e misurabili sui cittadini residenti e più in generale sugli utilizzatori della città. Gli ambiti di servizio riguarderanno una selezione circoscritta e individuata ex ante delle attribuzioni funzionali assegnate dalla legge a Comuni e Città metropolitane, con priorità per:

  • azioni di mobilità e logistica sostenibile, temi per i quali è prevalso l’approccio per grandi opere o il finanziamento occasionale di iniziative con logiche sperimentali, mentre è necessaria e matura l’adozione di soluzioni strutturali sulla frontiera tra regolazione degli usi e gestione di servizi innovativi. A tal fine, la vigenza di un piano urbano di mobilità sarà condizione necessaria affinché i comuni possano accedere alle risorse comunitarie per realizzare interventi di mobilità e logistica sostenibile nel quadro di un approccio integrato, nel quale gli interventi del FESR saranno accompagnati da adeguate misure complementari mirate alla dissuasione dell’uso dei mezzi inquinanti privati e, laddove necessario, all’agevolazione all’uso di mezzi collettivi e a basso impatto ambientale (per questi interventi, valgono interamente il quadro generale, le indicazioni programmatiche ed attuative fornite nella sezione 1.3 dedicata all’Obiettivo Tematico 4, nella sottosezione relativa alla mobilità in ambito urbano).
  • azioni di risparmio energetico e fonti rinnovabili, con priorità al risparmio energetico nell’edilizia pubblica e negli impianti di illuminazione, per abbattere i costi di gestione e le emissioni collegati alle attività delle Amministrazioni comunali.
  • il miglioramento della gestione dei servizi collettivi erogati, facendo leva sulla dimensione tecnologica ed organizzativa con il ricorso agli strumenti propri del paradigma “smart cities” insieme ad azioni di capacitazione istituzionale; laddove si intende per smart cities città in grado di realizzare infrastrutture di rete (acqua, elettricità, telecomunicazioni, gas, trasporti, servizi di emergenza, edificato, attrezzature pubbliche, ), sostenibili e sviluppate nel rispetto dell’ambiente, in grado di migliorare la qualità di vita dei cittadini, attraverso una maggiore accessibilità ed efficienza dei servizi urbani e della loro gestione su più scale territoriali in maniera integrata;
  • il loro rafforzamento attraverso interventi in piccole infrastrutture e start-up di nuovi Questo secondo tipo di progettazione, più complessa e onerosa, è indirizzata prioritariamente alle Regioni meno sviluppate, ma anche più in generale laddove il progetto intenda coprire un deficit di servizio e quindi raggiungere un’utenza in precedenza non considerata.

Proseguendo il percorso avviato con il Piano d’Azione per la Coesione, la programmazione 2020 finanzierà interventi di inclusione sociale in ambito urbano rafforzando le filiere delle politiche ordinarie ed intervenendo attraverso il coinvolgimento del tessuto associativo e dell’economia sociale. Tenendo conto delle sfide demografiche e sociali, sono previsti due ambiti di intervento prioritari (da integrarsi e non sovrapporsi con altre azioni previste):

  • sostegno alle politiche sociali, attraverso il rafforzamento degli strumenti ordinari esistenti, con particolare riferimento ai servizi per l’infanzia e gli anziani non autosufficienti nelle Regioni meno sviluppate;
  • contrasto alla povertà e al disagio, con focus su alcune dimensioni cruciali, tra cui il disagio abitativo, anche mediante interventi di incentivazione o sostegno sociale per persone e famiglie con gravi fragilità socioeconomiche (così come definite, in base a criteri di grave disagio economico e esclusione sociale, nella sezione 1.3 dedicata all’Obiettivo Tematico 98), il disagio occupazionale e l’esclusione relazionale/culturale per target di popolazione emarginata, attraverso la realizzazione di infrastrutture a destinazione socio-culturali (privilegiando la (ri)attrezzatura di spazi esistenti) e, soprattutto, azioni immateriali per la 104, partecipazione all’istruzione, la riduzione dell’abbandono scolastico, la diffusione della legalità e la sicurezza degli spazi pubblici.

Rafforzamento della capacità delle città di potenziare segmenti locali pregiati. Tenendo conto delle sfide socio-economiche, nel rispetto ambientale per la sostenibilità delle scelte, la programmazione sosterrà interventi volti a far crescere e attrarre l’insediamento di segmenti locali pregiati delle filiere produttive globali a vocazione urbana, con priorità per:

  • servizi avanzati per le imprese industriali, agricole ed ittiche, da individuare in stretto raccordo con le Strategie regionali di smart specialization per filiere produttive anche esterne, per localizzazione immediata, ai confini urbani;
  • imprese sociali, creative e per servizi per i cittadini, con azioni volte a sostenere l’affermazione di nuovi soggetti (giovani imprenditori, terzo settore) capaci di garantire il miglioramento dell’offerta locale nelle filiere dei servizi alla persona, nel welfare inteso sia in senso stretto sia per cultura e creatività e sensibilità ambientale, valorizzando le potenziali ricadute in termini di capacità di creare occupazione e generare servizi

L’individuazione delle aree tematiche specifiche e delle azioni da mettere in campo sarà oggetto di un processo di analisi di fattibilità e sviluppo progettuale che vedrà la condivisione delle metodologie su base nazionale per l’identificazione delle concrete potenzialità e dei risultati attesi. I progetti e gli interventi dovranno prevedere il coinvolgimento di presidi stabili di ricerca e innovazione, che saranno incoraggiati a rappresentarsi, come attori urbani e a stimolare attività comuni delle rappresentanze degli interessi dell’impresa. In linea con l’articolo 7 del Regolamento FESR, (con riferimento all’art. 8 del Regolamento generale) le Autorità di Gestione e le autorità urbane dovranno integrare la sostenibilità ambientale nell’elaborare le azioni urbane. Le priorità dell’Agenda urbana sono dunque riconducibili ad un sottoinsieme degli Obiettivi Tematici (OT) della programmazione 2014-2020 e contribuiscono direttamente al raggiungimento dei risultati attesi più generali definiti nel confronto partenariale.

Organizzazione dei Programmi Operativi Regionali in riferimento all’Agenda Urbana I temi e le priorità d’intervento dell’Agenda urbana sono declinate nei programmi Operativi Regionali secondo le specificità di ciascuna Regione all’interno della cornice comune stabilita nell’Accordi di Partenariato. Inoltre, le Regioni stabiliscono esplicitamente nei loro programmi le modalità organizzative con cui strutturare gli investimenti dell’Agenda urbana e gli strumenti attuativi, tenendo conto dell’esperienza del passato e dei necessari approfondimenti tecnici rispetto ai modelli previsti dal Regolamento: Asse dedicato riferito a diversi Obiettivi tematici. Tale opzione appare preferibile per consentire: – la semplificazione e riduzione di numero dei processi amministrativi per la gestione finanziaria e contabile del Programma; – l’inclusione nell’asse dedicato allo sviluppo urbano del riferimento anche ad obiettivi tematici-OT non presenti nel Programma; – la facilitazione dell’integrazione tra FESR e FSE nel caso di programmi pluri-fondo. Nell’adozione di tale opzione, ciascuna Regione sarà chiamata ad individuare e quantificare nell’asse urbano gli Obiettivi Tematici (OT) di riferimento e la corrispondente dotazione finanziaria, elemento che consentirà per ciascun OT presente nel Programma una migliore chiarezza di programmazione tra contributo all’Agenda urbana e agli altri interventi più prettamente settoriali/tematici. Tale opzione consente, inoltre, di misurare l’investimento complessivo per lo sviluppo urbano sostenibile e verificare il raggiungimento/superamento della quota del 5 % del FESR e, soprattutto, di garantire al confronto tra Amministrazioni regionali e Autorità urbane maggiore equilibrio, chiarezza, trasparenza e più immediata operatività nel programmare, selezionare e attuare gli interventi.

Investimento Territoriale Integrato (ITI). Tale modello, sebbene possa costituire una novità regolamentare in altri Paesi dell’Unione, è già stato sperimentato in Italia (sia nella presente, che nella passata programmazione) con strumenti dedicati alla progettazione integrata che in alcuni PO FESR (es. Sardegna 2000-2006 o Sicilia2007-2013) hanno impegnato risorse finanziarie da misure o linee di intervento in distinti assi prioritari. Un’architettura che, a fronte di una notevole complessità amministrativa, non ha realmente condotto a corrispondenti innovazioni di facilitazione di processo o di efficacia di risultato. Anche alla luce di questa esperienza si ritiene opportuno indicare questa opzione solo nel caso in cui la declinazione dell’Agenda urbana sia concentrata in poche aree target e a condizione di un efficace percorso di co-progettazione. Per entrambi i modelli sarà necessario esplicitare nei Programmi Operativi l’assegnazione di risorse dedicate all’Agenda urbana declinandole per Obiettivo Tematico.

8.    Safe city e Smart city

I termini “Safe city” (città sicura) e “Smart city” (città intelligente) sono spesso usati come un’unica entità. Tuttavia, i due concetti sono notevolmente diversi fra loro: una Safe city non è necessariamente una Smart-city e viceversa. Nelle Smart-Cities vengono prese in considerazione componenti come, i trasporti, l’energia, le infrastrutture fisiche e molti altri in versione cosiddetta “Smart”: misurazioni intelligenti, illuminazione stradale intelligente, gestione del traffico e monitoraggio della qualità dell’aria eccetera. Per le Safe Cities invece sono d’interesse la security, la safety e le attività in ambito urbano finalizzate a proteggere gli asset fisici e gli abitanti della città. Il concetto di “safe city” si basa sulla collaborazione di più organizzazioni e sull’uso di una solida piattaforma IT (information technology) che integri dati di pubblica sicurezza ottenuti tramite sensori, come telecamere, sistemi di controllo, accessi fisici, rilevatori di spari e CBRNE (chimico, biologico, radiologico, nucleare, esplosivo). Un’altra importante differenza tra Safe-Cities e Smart-Cities è costituita dai rispettivi market drivers principali. La realizzazione di progetti da safe-city dipende da fattori regionali, ad esempio l’instabilità politica di aree come il Medio Oriente, che poi si ripercuote in altre regioni globali, oppure i programmi anti-terrorismo attuati negli USA, in Asia e nell’area del Pacifico. In generale, esistono sette fattori che possono contribuire all’attuazione di un progetto di Safe-city:

  • minacce alla sicurezza
  • tagli di budget riguardanti il personale
  • promozione della crescita economica
  • condivisione di dati
  • la criminalità,
  • considerazioni politiche
  • la sostituzione di vecchi sistemi di

I paesi con il maggior potenziale di realizzazione di progetti di Safe-city sono Cina, India, USA, Singapore, Nuova Zelanda, Svezia, Qatar, Norvegia, Pakistan e Colombia. Tutti questi paesi hanno ottenuto un alto punteggio nell’indice sulle Safe-Cities redatto da IHS; più alto è il punteggio di un paese, maggiore è la probabilità che quest’ultimo attui progetti di Safe-city. L’indice è stato realizzato tenendo conto di fattori come l’economia locale, i rischi economici, la popolazione urbana, le minacce alla sicurezza e la stabilità politica. Mentre i concetti correlati e i market drivers delle Safe-Cities e delle Smart-Cities sono differenti, gli stakeholders di entrambe sono simili; tra questi ci sono le forze dell’ordine, i servizi di emergenza, la difesa civile e le utenze. Infine, il desiderio di Safe-Cities è alimentato dalle maggiori forze socioeconomiche che stanno agendo sulle metropoli – e sulle nazioni – come la crescita della popolazione e la migrazione verso le città. Per la prima volta nella storia, sono più numerosi gli abitanti di aree urbane che non quelli di aree rurali; una migrazione di queste proporzioni sta creando nuove pressioni sulle città perché diventino aree più sicure. A loro volta, questi cambiamenti esigono che amministratori e stakeholders delle metropoli investano in modo da aumentare l’efficienza delle città e migliorare la qualità della vita, fornendo allo stesso tempo infrastrutture sostenibili e servizi efficienti. Le costruzioni e l’ambiente sono elementi essenziali del puzzle di Smart City. Gli edifici sono la più grande fonte di emissioni di carbonio, rappresentano circa il 40% delle emissioni di anidride carbonica del mondo, secondo il World Business Council per lo Sviluppo Sostenibile. Gli edifici, mangiano quasi la metà di tutta l’energia consumata negli Stati Uniti. Qualsiasi città sul serio vivibile, e sostenibile deve aumentare il proprio “quoziente di intelligenza” del suo ambiente costruito. A tal proposito, si inizia col definire i termini che spiegano come gli edifici interagiscono con le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), la scoperta dell’importanza dei benefici della città con edifici intelligenti, ed infine gli obbiettivi tecnologici che ci permettono di raggiungere tali benefici. Il termine ‘ambiente costruito’ comprende tutte le infrastrutture dell’uomo. Si riferisce a edifici, naturalmente, ma anche a parchi, stadi e spazi pubblici. Gli edifici sono una parte importante di ogni città, da abitazioni private a uffici, fabbriche, negozi, scuole, alberghi, ristoranti e teatri. ‘Edifici intelligenti’ è l’abbreviazione comune per quelle strutture abilitate dalle ICT. Gli edifici intelligenti utilizzano tra loro, sensori metrici, sistemi e software per monitorare quelle funzioni come, illuminazione, energia, acqua, HVAC, comunicazione, monitoraggio video, rilevazioni d’intrusione, il monitoraggio degli ascensori, sicurezza antincendio, e security. Perché rendere gli edifici più intelligenti? Lo sviluppatore Jones Lang La Salle, nella, “Prospettiva globale di sostenibilità, immobiliare” si esprime così: “I progressi nella tecnologia dell’edilizia intelligente consentono l’ingresso in una nuova era, nella costruzione, nell’efficienza energetica, e nella riduzione di emissioni di anidride carbonica, producendo un ritorno sugli investimenti entro uno o due anni. Ora siamo in grado di eseguire in tempo reale il monitoraggio e il controllo a distanza, di tutti gli edifici, portando un miglioramento delle prestazioni, risparmi energetici significativi e, un controllo più ampio, della città connessa”, e la sua relativa security. Nella maggior parte delle città, l’ambiente costruito è un mosaico di edifici privati o municipalizzati. Anche se un governo della città può possedere solo una piccola frazione degli edifici, può comunque monitorare ed intervenire su tutti gli edifici situati sul proprio territorio. Per esempio, si può:

  • dare l’esempio e garantire che i propri edifici aderiscono agli obiettivi spiegati in questo capitolo, generando una globale adesione all’ICT tipico dei pubblici
  • creare e far rispettare i codici e le norme che sviluppano il cambiamento, con incentivi per i proprietari che vogliono aderire al progetto.
  • educare i residenti attraverso la consapevolezza e la sensibilizzazione del pubblico
  • fornire supporto e di orientamento, dando accesso alla consulenza e personale qualificato via web, telefono o di persona.

I metodi adottati per il cambiamento in ambienti costruiti, variano da situazione a situazione urbana, ma i leader che perseguono una città intelligente, hanno come elemento di azione proprio l’adesione al progetto ICT. Quindi quali sono le tecnologie e le migliori pratiche e obiettivi che consentono il nascere di un ambiente costruito? Gli obiettivi introdotti nel capitolo universale si possono applicare, all’ambiente costruito. Ma in primo luogo, diamo un rapido sguardo ai vantaggi forniti, da un intelligente ambiente urbano. Il miglioramento di un ambiente urbano e di conseguenza della sua sicurezza, dipende soprattutto da una sua pianificata e compresa dipendenza da altri sistemi e servizi. Un fattore determinante è migliorare il confort degli occupanti di tali edifici, dal momento che la maggior parte delle persone trascorrono quasi tutto il loro tempo al chiuso, con la consapevolezza, per esempio che un edificio intelligente adatta la luce, il calore, e raffreddamento a ciascuna area o anche ad ogni individuo. Altro obbiettivo fondamentale è, migliorare la sicurezza e la protezione degli occupanti, attraverso la c.d.” security ICT” (carte d’accesso, monitoraggio, video, allarmi fuoco e fumo). Da ciò scaturisce una piena visione di insieme dell’edificio ed il suo esterno, fornendo agli operatori ampi strumenti per una risposta in tempo reale. Tali sistemi possono essere gestiti in remoto con l’ausilio di un smartphone, di un tablet, garantendo un “controllo a distanza” funzionale e conveniente. Altro fattore importante è, che applicare la tecnologia: – fa risparmiare, (energia, acqua, luce, gas, rifiuti), dando ai proprietari e agli occupanti un vantaggio competitivo rilevante; – fa percepire l’ambiente più sicuro, rendendo il lavoro più fluido ad ogni livello. – contribuisce alla riduzione delle emissioni e l’abbassamento dell’uso delle risorse. Per concludere questo capitolo analizziamo i settori prioritari necessari ad un netto miglioramento della qualità della vita per i cittadini, inseriti in una Smart City intesa come “sistema di sistemi”, sono stati riconducibili secondo lo studio European Smart City 31 condotto dal Politecnico di Vienna in sei categorie:

Smart Economy

Le attività economiche in una Smart City sono orientate alla competitività in termini di innovazione tecnologica e non, imprenditorialità, produttività, flessibilità del mercato e del lavoro, fautrici di innovazione e cambiamento. Tale condizione è favorita da un ambiente orientato all’innovazione, dove si privilegia la costruzione di network interconnesse tra loro piuttosto che un approccio top down, al fine di favorire interazione e condivisione di conoscenze.

Smart People

La nuova veste dei cittadini è il motore del nuovo paradigma urbano: il capitale umano diventa centrale anche al fine di sostenere lo sviluppo delle altre dimensioni della città intelligente. Basta pensare che tutti i settori sono trainati da persone che ne influenzano le tendenze e i risultati attraverso le proprie capacità, e a maggior ragione il fattore umano diventa essenziale nei processi di Governance. Altri elementi che aggiungono intelligenza ad una città riguardano il numero e la qualità delle interazioni sociali, ai fini di acquisire coesione e apertura sociale.

Smart Governance

Elemento alla base di una governance “Smart” è la partecipazione ai processi decisionali nonché alla vita politica da parte dei cittadini. L’amministrazione intelligente sfrutta i nuovi canali di comunicazione per arrivare ai cittadini, per migliorare i processi democratici, come l’e-governance.

Smart Mobility

La mobilità in una città intelligente è agevole, dispone di un organizzato sistema di trasporto pubblico innovativo e sostenibile, promuove l’uso dei mezzi a basso impatto ambientale ed alta efficienza energetica come i veicoli elettrici, ecologici come la bicicletta, regolamenta l’accesso ai centri storici privilegiandone la vivibilità (aree pedonalizzate); adotta soluzioni avanzate di mobility management e di infomobilità, sfruttando le tecnologie dell’ICT per gestire gli spostamenti quotidiani dei cittadini e gli scambi con le aree limitrofe al fine di garantire la piena accessibilità locale ed extra-locale a chi si sposta.

Smart Environment

L’ambiente in una Smart City è gestito in modo sostenibile, orientato alla protezione e tutela del patrimonio naturale. Aspetti particolarmente rilevanti sono la gestione dei rifiuti, emissioni gas serra, del verde urbano, consumo di suolo, bonifica delle aree dismesse e tante altre questioni che possono influire sulla sfera ambientale.

Smart Living

In una Smart City la qualità della vita è garantita da una serie di elementi quali la salute, la sicurezza, la qualità dell’abitato, nonché dalla vivibilità degli spazi urbani e non, l’istruzione, la cultura, l’attrattività turistica, e la coesione sociale. Sicurezza ed innovazione: due termini chiave su cui riflettere se si vogliono immaginare le città del futuro. Dipendono infatti da questi due fattori una migliore qualità della vita e un ambiente cittadino più vivibile; devono dunque essere a disposizione soluzioni tecnologiche all’avanguardia e un livello di sicurezza personale e delle infrastrutture efficace e non troppo invasivo.

CPTED di seconda generazione.

Il Cpted di seconda generazione Il termine “2nd Generation Cpted” viene coniato nel 1997 da Saville e Cleveland, per indicare quella che, secondo gli autori, è una nuova e più corretta direzione intrapresa dall’approccio Cpted. Gli autori sottolineano come l’attenzione per l’ambiente costruito costituisca solo una parte del processo che porta alla creazione di comunità veramente sane e sostenibili. Quella che sta prendendo piede è una versione del Cpted come processo di “community building” (Saville e Cleveland 1997: 1), che tiene in considerazione non solo le caratteristiche fisiche ma anche sociali ed economiche dell’ambiente. Il design fisico dell’ambiente può e deve supportare il formarsi di quello che gli autori chiamano “affective environment” (Saville e Cleveland 1997: 2). Gli autori richiamano nel testo i quattro concetti chiave del Defensible Space (sorveglianza naturale, territorialità, immagine e diversità funzionale) e rilevano come ognuno di esse si leghi a fattori che rimandano alla coesione sociale e che influenzano le opportunità criminali. In modo particolare, l’elemento chiave è la territorialità, come espressione di un attaccamento comunitario allo spazio. Il design dell’ambiente può influire sul formarsi di un senso di appartenenza territoriale, ma esso dipenderà in ultima istanza dalla stabilità della comunità e dall’attaccamento delle persone ad un luogo. Non è possibile affrontare un male come l’insicurezza soltanto attraverso il design fisico, ma bisogna curare anche il “virus sociale”. Sarebbero in particolar modo cinque, le indicazioni fondamentali incorporate nel Cpted di seconda generazione;

  • la prima riguarda la necessità di realizzare quartieri che siano a misura d’uomo. Questo significa una dimensione contenuta, il recupero di uno stile di vita su scala locale dove è più facile il formarsi di uno spirito comunitario.
  • In secondo luogo viene l’importanza dei punti di ritrovo all’interno dei quartieri, “urban meeting places”. Essi sono infatti fondamentali per il formarsi di uno spirito di appartenenza al territorio. L’utilizzo del territorio, la creazione di luoghi di ritrovo può anche essere stimolata attraverso l’organizzazione di eventi. Secondo gli autori questa indicazione altro non sarebbe che una nuova formulazione del concetto dell’”activity generation”.
  • Il terzo aspetto riguarda la creazione di spazi di aggregazione specifici per i giovani poiché, come già la Jacobs (1961, trad. it 2000) aveva sottolineato, uno degli aspetti fondamentali per il buon funzionamento di una comunità è la capacità che essa ha di integrare le giovani
  • Il quarto ed il quinto aspetto riguardano l’importanza fondamentale della partecipazione e della responsabilizzazione dei residenti. Il coinvolgimento degli abitanti riguarda sia la necessità di porli nelle reali condizioni di partecipare attivamente alla vita sociale della comunità, sia l’importanza della loro partecipazione nel processo di decision making che riguarda la comunità.

Quella proposta dal Cpted di seconda generazione è una forma di sviluppo “sostenibile” della comunità in cui la predisposizione di opportunità di interazione e coesione è importante quanto la progettazione fisica dello spazio. L’interesse dell’Unione Europea nei confronti dell’approccio ambientale alla sicurezza si afferma formalmente a partire dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso. Nel 1997 il Congress of Local and Regional Authorities of the Council of Europe (C.L.R.A.E.) organizza ad Erfurt (Germania) la prima di una serie di conferenze su questi temi. Nelle dichiarazioni finali della conferenza venne affermata la necessità di una collaborazione tra le componenti istituzionali, sociali e professionali (tra cui i progettisti) per il conseguimento del “bene sicurezza”. Il passo più significativo compiuto dalle istituzioni europee avvenne nel 1995 quando il Comitato Europeo per la Normalizzazione (CEN) iniziò la preparazione di uno standard relativo alla prevenzione del crimine attraverso la pianificazione ambientale, denominato “Prevention of Crime by Urban Planning and Building Design” (prENV 14383). Il Comitato Europeo per la Normalizzazione è l’organo europeo incaricato della produzione di nuovi standard. È costituito dagli enti nazionali di normalizzazione dei singoli paesi. L’ente italiano di riferimento è costituito dall’Ente Nazionale Italiano di Unificazione (UNI). Gli standard, elaborati dal CEN non hanno valore di legge ma sono considerati “best practices” con un peso importante. Per l’elaborazione dello standard venne costituita una Commissione Tecnica, composta da esperti provenienti dai diversi paesi europei.

L’obiettivo della norma è quello di fornire ad autorità e professionisti delle linee guida e indicazioni pratiche per la riduzione del crimine e la paura del crimine. La norma riguarda sia la realizzazione di nuove aree che interventi di riqualificazione. Lo standard è suddiviso in due parti: una riguardante la pianificazione urbanistica e l’altra i singoli edifici. La norma considera sia i reati veri e propri che atti di inciviltà e riconosce il crimine e la paura del crimine come fenomeni distinti ma egualmente importanti per le loro ripercussioni sulla qualità della vita. Viene altresì riconosciuta la necessità di politiche che integrino interventi rivolti sia all’ambiente fisico che a quello sociale. Si tratta dunque di un approccio integrato che incoraggia la collaborazione di attori ed istituzioni diverse ed in diversi ambiti disciplinari. Tuttavia solo recentemente, l’Italia si è trovata ad affrontare problematiche relative alla sicurezza, in un contesto normativo nazionale che vede il Governo centrale avere il monopolio in materia di sicurezza, intesa per lo più come competenza delle Forze dell’ordine e della magistratura. Di fronte all’aumento della domanda di security dei cittadini e ad una estensione del concetto stesso di sicurezza le Autorità locali, investite di una nuova responsabilità nell’ambito, avviano negli anni ’90 del secolo scorso, le prime politiche locali per la sicurezza.

L’ esperienze pilota si hanno nelle città del Nord e nel Lazio, per poi fiorire, nel corso degli anni, in numerosi Comuni di tutta la penisola. È stato altresì sottolineato come le diverse esperienze siano riconducibili ad un “modello misto di politiche di sicurezza”, che prevede l’utilizzo contemporaneo di diversi tipi di approccio, all’interno di una stessa politica per la sicurezza. Per quanto riguarda l’applicazione del Cpted, soprattutto negli ultimi anni, si è registrata una diffusione di interventi riconducibili a questo approccio. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi, di interventi di riqualificazione e rivitalizzazione di aree degradate, soprattutto periferiche, nonché di potenziamento dell’illuminazione. Analizzando 100 progetti per la sicurezza selezionati come “best practices” dal Forum Italiano per la Sicurezza Urbana e altri progetti promossi da Comuni di diverse regioni, emerge tuttavia come l’attenzione sia per lo più focalizzata, pur con le specificità locali, soprattutto su interventi di tipo culturale e di prevenzione sociale (integrazione e mediazione dei conflitti, diffusione di una cultura della legalità, sensibilizzazione, ascolto e supporto alle vittime ed ai soggetti più deboli) e su interventi volti al potenziamento del controllo del territorio (sistemi di videosorveglianza e implementazione dei controlli amministrativi e della polizia locale) nonché di avvicinamento e di rafforzamento del rapporto tra Polizia Locale e cittadini. Dall’analisi svolta emerge come ad oggi questo approccio si sia affermato fino ad essere oggi integrato in molte politiche per la sicurezza. In un contesto in cui le Autorità devono trovare delle risposte ad una domanda di sicurezza in continua crescita, il successo di questo approccio è dovuto al fatto che esso sembra offrire delle strategie di facile applicabilità, comprensione e grande visibilità. Emerge tuttavia come in realtà, solo alcune strategie indicate dal Cpted hanno avuto successo. Si tratta delle implicazioni operative che riguardano solo piccoli interventi per lo più riconducibili al design architettonico, all’arredo urbano, all’illuminazione ed alla riqualificazione qualitativa degli spazi. Molto spesso il Cpted è stato adottato come una soluzione momentanea applicata all’emergere di un problema. In realtà, analizzando in profondità le riflessioni dello stesso Newman, emerge come il Cpted non sia limitato a questi aspetti ma si proponga come un approccio più ampio in cui la progettazione dello spazio fisico deve integrarsi con elementi di progettazione sociale. Questo aspetto è evidenziato dall’evoluzione a livello teorico in quello che viene definito Cpted di seconda generazione. L’obiettivo diviene dunque la costruzione di uno spazio sociale in cui la sicurezza è una componente fondamentale di una comunità e la progettazione dello spazio costruito una sua variabile. Dalla frequente applicazione di strategie Cpted nei programmi locali per la sicurezza, emerge come oggi, in Italia, si sia iniziata a diffondere la consapevolezza che l’urbanistica è uno degli strumenti attraverso i quali le Autorità Locali possono affrontare il problema della sicurezza, sfruttando le risorse di loro competenza. Quello che si auspica è una presa di coscienza da parte delle Regioni della necessità di prevedere a livello normativo l’inserimento di criteri Cpted nella realizzazione di ogni tipo di progetto urbanistico, affinché la sua applicazione diventi continuativa e parte stessa del processo di progettazione. Per arrivare a questo risultato ritengo siano particolarmente importanti tre aspetti. In primo luogo la diffusione del Cpted attraverso il supporto alla ricerca ed alla formazione di tecnici ed amministratori locali, processo già avviato grazie alle attività del Forum Italiano per la Sicurezza Urbana e di enti di ricerca e formazione quali ad esempio il Laboratorio Qualità Urbana e Sicurezza del Politecnico di Milano e Trans-crime. In secondo luogo potrebbe essere utile un coordinamento a livello nazionale da parte del Governo centrale, almeno sotto forma di indirizzo. In questa direzione un primo passo avanti è stato compiuto con l’adozione, nel 2007, della norma CEN (ENV 14383). È inoltre necessario incentivare e supportare la valutazione dei programmi attuati, per formare la base su cui perfezionare le esperienze già attuate, rimediando agli errori ed adattando gli interventi a contesti diversi. La divulgazione e lo scambio di esperienze costituisce infatti un supporto fondamentale alla diffusione dell’approccio. La valutazione degli interventi attuati è un aspetto che viene spesso trascurato. Le ragioni possono essere riconducibili alle necessità politiche che questi programmi devono soddisfare. Nella necessità di dover dare delle risposte ad una sempre più pressante domanda di sicurezza da parte dei cittadini: l’attuazione di un programma di intervento, diventa l’obiettivo primario. Dimostrare di aver fatto qualcosa diventa più importante, in termini di spendibilità politica, della dimostrazione dell’efficacia dei programmi attuati. A questo va aggiunto che la valutazione richiede un investimento di tempo e risorse che spesso non sembra giustificato. Il contributo che la valutazione può dare al processo di decision making è tuttavia essenziale. È altrettanto importante la formazione di un patrimonio di conoscenze, basato sulle esperienze già intraprese, da cui prendere spunto per la formulazione di nuove strategie di intervento.

Elementi generali della CPTED

In questa fase andremo ad elencare alcuni punti fondamentali da tenere in considerazione nella progettazione e relativa approvazione. Esse sono: – occasioni di sorveglianza spontanea e linee visuali – mescolanza di funzioni e generatori di attività – evidenziazione di usi e proprietà – progettazione esterna degli edifici – illuminazione – orientamento – percorsi prevedibili e punti senza uscita.

Sorveglianza spontanea e linee visuali

La sorveglianza spontanea comporta l’uso e progettazione di strutture che aumentino al massimo la visibilità in uno spazio. Ciò aumenta la sensazione di sicurezza ed è un deterrente alle attività criminali. Linee visuali sgombre, la possibilità di guardare ciò che sta davanti per un lungo tratto di strada o spazio aperto, offrono una occasione di sorveglianza spontanea. Una chiara visibilità a distanza offre a ognuno sia una percezione di sicurezza, sia un adeguato spazio di reazione a qualunque possibile minaccia. I seguenti principi progettuali devono essere presi in considerazione nelle ipotesi di trasformazione, per promuovere sorveglianza spontanea e offrire adeguate linee visuali:- collocare gli edifici affacciati sullo spazio aperto e/o sull’edificazione adiacente – realizzare affacci che includano elementi di attività – fissare chiare linee visuali attraverso gli spazi più problematici di edifici e altri caratteri del luogo – progettare percorsi, sottopassi e altri ambiti in modo da ridurre al minimo sbalzi di livello improvvisi e angoli ciechi, aumentando al massimo una chiara linea visiva – aumentare al massimo la visibilità delle zone a massimo rischio, come i parcheggi delle auto (pubblici o annessi ai posti di lavoro), trombe delle scale, sottopassaggi – progettare il sistema degli spazi in modo tale che i corridoi di mobilità pedonale e i punti di destinazione siano chiaramente individuabili, e dotati di abbondanti linee visuali.

Miscele funzionali e generatori di attività. In termini di sicurezza reale e percepita, è importante una equilibrata miscela di usi dello spazio. Uno dei modi principali per realizzare questa sicurezza, reale e percepita, è un insieme funzionale che aumenti e mantenga usi legittimi degli spazi. I generatori di attività sono le strutture che attirano le persone, creano attività “normali”, incrementano la vigilanza spontanea in uno spazio. Ciò reduce le occasioni di comportamenti criminali e aumenta la percezione di sicurezza. Nella progettazione, per promuovere adeguate miscele funzionali, si devono tener presenti i seguenti principi: – evitare una rigida separazione tra funzioni compatibili, che potrebbe causare isolamento di alcuni edifici o spazi – collocare generatori di attività o spazi di sosta con sedili sui “margini attivi” o estremità di uno spazio, a creare vigilanza spontanea verso l’interno – incoraggiare il passaggio pedonale di attraversamento o l’attività nelle varie zone, a livello terreno, per promuovere la vigilanza spontanea.

Evidenziazione di usi e proprietà

Il progetto deve porre in evidenza limiti di proprietà e scopi per cui è inteso uno spazio. Quando la funzione è chiara, appare più evidente e dunque meno probabile l’uso illegittimo. Nella progettazione, a evidenziare usi e proprietà di uno spazio, si deve tener conto dei seguenti principi: -utilizzare segnalazioni e soglie per definire le funzioni individuate e le proprietà – utilizzare barriere materiali (ad esempio recinzioni) o simboliche (ad esempio vegetazione), per definire funzioni e proprietà – utilizzare soglie virtuali come cambiamenti nel materiale di pavimentazione, cambi di livello, gradazioni di luce.

Principi di progettazione esterna degli edifici

La progettazione e finitura esterna di un edificio può direttamente favorire o ridurre i reati, riducendo le occasioni di tranelli, nascondigli, vandalismo. Nella progettazione tesa a migliorare l’aspetto esteriore degli edifici si deve tener conto dei seguenti principi): – assicurare che gli ingressi degli edifici siano rivolti verso spazi aperti o “attivi” – ridurre al minimo le pareti cieche affacciate su verde o altri spazi – progettare ingressi e altri ambiti in modo tale da limitare le occasioni di nascondiglio – delimitare chiaramente la zona attorno all’ingresso, rispetto al marciapiede pubblico -ridurre al minimo elementi o strutture (aree a deposito, balconi sporgenti o tettoie) che possano essere utilizzati come “scale naturali” per accedere ai piani superiori dell’edificio, o porte, o finestre -aumentare al massimo la varietà di progettazione degli edifici e del verde, per creare ambienti urbani interessanti – offrire linee visive ininterrotte dall’interno dell’edificio al punto di entrata, in modo tale che chi sta dentro possa guardare all’esterno prima di uscire – offrire agli utenti dell’edificio la possibilità di guardare all’interno l’ingresso/reception prima di accedere – assicurare che la progettazione del verde non offra nascondigli o possibilità di tranelli.

Illuminazione L’illuminazione può aumentare il livello di sicurezza percepita ed essere di deterrenza al crimine. Nella progettazione di una illuminazione adeguata devono essere tenuti in conto i seguenti principi – aumentare al massimo le occasioni di illuminazione naturale degli spazi – utilizzare luci multiple anziché una singola fonte, per offrire livelli consistenti di illuminazione e ridurre il contrasto luce/ombra – assicurare che tutti gli spazi di passaggio, percorsi di accesso e deflusso e segnaletica, siano ben illuminati – evitare l’illuminazione di zone per cui non si prevede alcun uso notturno – assicurare che la luce illumini i percorsi pedonali e gli spazi di potenziali tranelli, anziché vetrate e strade – sistemare le fonti di luce in posizioni tali da non subire l’interferenza della vegetazione di maggior dimensioni – individuare e illuminare “percorsi sicuri” – evitare di collocare a livello dell’occhio fonti di luce “non schermate” – installare fonti di luce collocate in alto, resistenti alle azioni vandaliche e che rivolgano la luce verso il basso.

Orientamento: Orientamento significa uso di simboli, segnaletica e soglie per agevolare gli spostamenti in un’area. Questi elementi sono di guida a un uso adeguato dello spazio, e rendono evidenti ad altri quelli inappropriati. L’uso pubblico di una zona può essere orientato facilmente attraverso scritte e simboli. Le barriere (recinzioni o linee di verde) possono segnare chiaramente i confini. Anche misure passive, come un cambio di disegno o colore delle superfici, possono segnalare un cambio di proprietà o condizioni d’uso. Nello sviluppo di progetti relativi alla segnaletica e all’orientamento si devono tenere in conto i seguenti principi – la segnaletica deve indicare la posizione di punti o spazi di servizio, come telefoni, gabinetti, parcheggio taxi, fermate dell’autobus – i segnali devono essere visibili, concisi e di facile manutenzione (ad esempio identificabili da venti metri come regola generale).

Percorsi prevedibili e punti senza uscita

I percorsi prevedibili sono un problema di sicurezza, dato che consentono a potenziali aggressori di individuare facilmente il percorso imboccato dagli utenti. Comprendono i percorsi pedonali, le scale, sottopassaggi e corridoi. Il problema è particolarmente grave quando un percorso termina nei pressi di un punto di possibile tranello. Questi punti tranello sono spazi delimitati abbastanza vicini a quelli ad accesso pubblico. In genere sono schermati su tre lati da barriere quali muri o vegetazione e permettono di nascondersi facilmente. Nella progettazione, per ridurre al minimo gli spazi di possibili aggressioni e i percorsi prevedibili, si deve tener conto dei seguenti principi: – eliminare ovunque possibili percorsi prevedibili e spazi per potenziali tranelli, attraverso il progetto – offrire adeguate linee visuali e illuminazione quando non esistano alternative ad un percorso obbligato – inserire un’adeguata distanza da qualunque spazio potenziale di tranello o nascondiglio, per consentire all’utente un tempo di reazione adeguato – assicurarsi che i percorsi prevedibili abbiano una buona vigilanza spontanea e offrire vie d’accesso alternative – contrassegnare i percorsi alternativi con una segnaletica efficace, ovvero percorsi ben illuminati e utilizzati di frequente. Tutto ciò può dare un forte aiuto a quelle che definiamo governance della sicurezza, ma non una qualsiasi governance e neanche una qualsiasi sicurezza. Al centro del nostro interesse è il problema della governance nel territorio e la sicurezza nelle città: la sicurezza urbana, meglio definita in alcuni paesi come sicurezza cittadina. A tutto ciò vanno comunque inserite, le politiche di integrazione come strumento per la sicurezza dei cittadini, l’elaborazione del significato delle politiche di integrazione, le forme della criminalità straniera e i nessi tra integrazione urbana e devianza. Attraverso la condivisione di detti strumenti, potremo attivare una politica forte ed un elaborato di facile attuazione, che potrà servire a tutti come linea guida per progetti di sicurezza urbana.

9.    Conosciamo il progetto VITRUV, contesto del progetto e gli obbiettivi

Il VITRUV è una piattaforma informatica intuitiva, a disposizione degli urbanisti e dei loro consulenti, nella valutazione dei progetti urbani. L’obiettivo è quello di avere uno strumento efficace per valutare le vulnerabilità della sicurezza urbana, e per considerare meglio, le strategie di mitigazione del rischio, e l’indice di resilienza, durante il processo di pianificazione urbanistica.

Le questioni relative alla sicurezza saranno messe in relazione con gli altri aspetti all’interno di spazi decisionali urbanistici, quali l’economia, l’etica, il sociale, e la mobilità. Dopo l’identificazione dei rischi, saranno presentate le strategie di mitigazione, prima nella valutazione concettuale, e dopo durante lo sviluppo dei progetti. Al Piano Urbanistico, ed ai successivi livelli di dettaglio, saranno applicati specifici algoritmi finalizzati ad identificare particolari vulnerabilità in tema di sicurezza urbana, e a valutare opzioni mirate di mitigazione, focalizzate in particolare su minacce derivanti dall’uso di esplosivi o agenti biologici e chimici.

Gli obiettivi generali specifici sono:

  1. Lo sviluppo di un software che consenta agli amministratori di prendere, le decisioni qualitative più consone per le loro città.
  2. Sviluppo di uno strumento chiamato “computer-based ”con:
  3. auto-analisi del rischio empirico e semi-quantitativo (SER), sulla base di considerazioni passate e future degli esperti di “spazi urbani” utilizzando le loro, analisi di suscettibilità (SA)
  4. auto-analisi quantitativa del rischio (QRA) dei spazi in base alla posizione, al tipo di costruzione, agli elementi strutturali, e relativa analisi di vulnerabilità (VA).
  5. Integrazione delle funzionalità SA con un’interfaccia utente grafica tridimensionale (3D GUI), che comprende una guida sulle misure di miglioramento, e relativi costi. La GUI 3D sarà una interfaccia grafica che permette la visualizzazione 3D di scenari di pianificazione urbanistica, con                          ingresso          analisi                     e                         
  6. Prova e valutazione, degli strumenti informatici

Risultati del progetto:

Il primo periodo del progetto ha visto un intenso scambio di esperienze tra i potenziali utenti finali, al fine di comprendere appieno le esigenze degli stessi. Tali requisiti hanno costituito la base su cui sviluppare l’ossatura della soluzione tecnica complessiva e le, interfacce funzionali dei strumenti VITRUV. Sulla base di questi risultati, lo sviluppo degli strumenti concettuali, e dei livelli di dettaglio è stato avviato ed è progredito. La ricerca è stata effettuata al fine di implementare ulteriormente i metodi socio-economici, la cultura della sicurezza, l’etica, gli aspetti giuridici e i criteri di accettazione dei cittadini nella pianificazione. Sulla base di perizie inserite in un data-base, sono state fornite soluzioni da applicare nelle valutazioni del rischio, riferito ad attacchi terroristici in specifiche configurazioni urbane. Inoltre a livello di dettaglio, sono state fornite, versioni dei moduli quantitativi per le minacce esplosive e biologiche e chimiche, con relative stime dei danni. Modelli di infrastrutture, compreso il trasporto, sono stati sviluppati al fine di configurare scenari urbani utili per i c.d. livelli di piano e di dettaglio. I casi di studio urbani come, Bologna, Copenhagen, Londra e Waterford sono stati identificati e documentati.   Questi casi di studio sono attualmente utilizzati per lo sviluppo di ulteriori strumenti e saranno disponibili anche per altri progetti.

Un sito web del progetto è stato istituito e aggiornato, e i primi risultati sono stati presentati in una serie di workshop e conferenze.

Risultati raggiunti fino ad ora;

  • Istituzione di team di progetto internazionale con un efficace sistema di comunicazione
  • Definizione di scenari operativi
  • Sviluppo di proposte e soluzioni tecniche complessive e interfacce funzionali
  • Relazione sui metodi socio-economici attuati come strumento di pianificazione strategica
  • Relazione sui metodi per integrare le diverse considerazioni di pianificazione strategica
  • Prima iterazione del prototipo di software per la valutazione del rischio per gli attacchi con esplosivi
  • Prima iterazione del prototipo software quantitativo di valutazione del rischio per gli attacchi biologici e chimici
  • Determinazione e documentazione delle quattro aree di studio per sostenere lo sviluppo la sperimentazione e la valutazione
  • Sito web del progetto
  • Impatto potenziale: i principali risultati sono usati per lo sviluppo, la sperimentazione, e la valutazione dei strumenti, che possono essere utilizzati singolarmente o in progressione durante il processo di pianificazione:

Concept:

  • Valutazione del rischio, consentendo agli urbanisti di fare una rapida valutazione dei problemi di sicurezza più rilevanti, per un progetto
  • Knowledge base, rilevanza delle questioni individuate e inserimento nel modus operandi degli urbanisti
  • Raccomandazioni, che prevedono un’ulteriore analisi dei rischi
  • Strumenti di livello:
  • Analisi di sensibilità: le infrastrutture e le aree che hanno una maggiore probabilità che un evento si verifichi sulla base di precedenti attacchi terroristici identificati in tutto il mondo, prendendo in considerazione una minaccia specifica, (es. attentato con autobomba)
  • Analisi vulnerabilità: Sulla base dei risultati dell’analisi di sensibilità, vengono elencate le conseguenze osservate in passato, ed in seguito a tali eventi
  • Hotspots a rischio di identificazione: unendo i risultati empirici e analizzando il risultato della vulnerabilità degli hotspots a rischio, a seconda dei vari criteri, può essere determinato il costo di ricostruzione o dell’interruzione di linea
  • Strumenti livello di dettaglio:
  • Analisi di sensibilità: come l’inaccessibilità delle strade a specifici veicoli
  • Analisi vulnerabilità: Sulla base dei risultati delle analisi di sensibilità, un test viene effettuato per quantificare i potenziali danni agli edifici e agli esseri umani in luoghi specifici a causa del traffico.

In questa fase, varie azioni terroristiche saranno considerate come i diversi tipi di attacchi con bombe e / o agenti chimici biologici.

  • Individuazione delle aree vulnerabili / L’analisi multipla di potenziali eventi in diversi settori faciliterà la pianificazione e l’identificazione delle aree più
  • Guida                   alla     valorizzazione della resilienza: un elenco di metodi di valorizzazione di resilienza è offerto per sostituire o migliorare i componenti dell’infrastruttura specifica. Un nuovo calcolo delle molteplici minacce può essere eseguito in riferimento all’indice di impatto apportato delle misure

Benefici:

Una maggiore consapevolezza della sicurezza all’interno dei progetti urbanistici si ottiene attraverso specifici strumenti che offrono un approccio coerente per integrare la stessa, che a sua volta migliora le decisioni politiche. Gli strumenti contribuiranno a permettere lo sviluppo delle aree più resistenti nel campo della (ri) pianificazione urbana, (ri) progettazione. I progettisti usando i programmi di VITRUV, saranno in grado di fornire alle aree urbane meno inclini e colpite da attacchi terroristici, criminalità comune, e instabilità sociale, progetti che miglioreranno la qualità della vita dei cittadini.

10. Considerazioni finali

Nelle pagine precedenti, ho a grandi linee definito il ruolo dell’urbanistica, ed il suo rapporto con la sicurezza urbana. Ho anche cercato di spiegare tutti quegli eventi legati al mondo della delinquenza di prossimità, atti vandalici, al terrorismo, etc, scoprendo che, molti dei percorsi intrapresi, le strategie messe in campo per fronteggiare suddetti fenomeni, sono si, in evoluzione, ma ancora lontane dall’essere risolutive. In Italia, dove le contraddizioni, i squilibri sociali e territoriali, le innumerevoli problematiche di carattere mafioso e corruttivo, impediscono di dare spiegazioni appaganti alla domanda di sicurezza. In un contesto di nette trasformazioni, istituzionali, sociali, politiche, di perdita di valori di riferimento, e di crisi del sistema giudiziario, non può non essere preso in considerazione l’effetto devastante, sull’opinione pubblica, e sul suo senso di sicurezza, dovuto alla disattesa esigenza della c.d. certezza della pena.

Non c’è nulla di peggio, per ogni singolo cittadino, imprenditore, o agente di polizia per esempio, constatare l’inefficacia del sistema sanzionatorio, che non garantisce la giusta pena. Con ciò non voglio mettere in vista, gli eventi risolutori di alcuni stati, che hanno legiferato sull’inasprimento delle pene, ma pongo in evidenza il nesso tra giustizia e sicurezza del cittadino residente. Non a caso, molte volte progetti risolutivi, finiscono per arenarsi nel groviglio delle leggi civili e penali. In ambito locale, frequentemente viene chiesto ai magistrati un ruolo attivo nelle strategie di urban security, per sensibilizzarli ed indirizzarli verso una politica della sicurezza, strumento necessario all’evolversi delle strategie contro il c.d. fear-crime.

Quindi da un lato dobbiamo rispondere alle domande dell’opinione pubblica relative alla percezione dell’insicurezza, dall’altro in sinergia con i vari livelli istituzionali, mettere in atto progetti concreti, capaci di far fronte ai veri problemi della sicurezza urbana e alle politiche preventive ad essa legate. Il tema della paura del crimine, e della sicurezza urbana è ancora pieno di problemi irrisolti. E’la sfida più impegnativa con cui le Istituzioni soprattutto locali, devono cimentarsi, dando risposte concrete ai cittadini, e rendere in sinergia con il settore dell’urbanistica le città, più vivibili, più sicure, più civili.

_______

Marco Fanti, Criminologo AICIS e CEO della  Fenice Security Servis S.r.l.

AICIS