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Ora non è più “l’angelo della morte”, come la definivano senza mezzi termini i titoloni dei giornali, anzi non lo è mai stata: Daniela Poggiali per la giustizia italiana è innocente. Pochi giorni fa, infatti, la Cassazione ha messo fine alla sua incredibile storia. Ma sull’assoluzione niente titoloni, però. Non fa più notizia, diciamo. Restano il suo sorriso amaro per la vittoria, nove anni di tribolazioni e batticuore, le lunghe giornate trascorse dietro le sbarre, e quel modo di dire “se l’è cavata” che tra la gente fa pensare più ad una botta di fortuna che alla sua effettiva rettitudine. Invece, non è che “se l’è cavata”, semplicemente non ha commesso il fatto.
COME SI CREA IL MOSTRO
Scagionata completamente, quindi, ma resta quella terribile immagine costruita dai media su di lei in Italia e addirittura nel mondo. Per farvene un’idea provate a consultare https://www.dailymotion.com/video/x2mo8ig per vedere come è stata raffigurata in un video cartone animato. Per la stampa una era una Serial Killer, spinta per giunta da un movente futile e crudele: “la presenza dei parenti dei vecchietti uccisi la disturbavano”, scrivevano. Il sito statunitense “dailymotion” per creare una suggestione ancora maggiore ricordava ai lettori che il potassio, cioè la sostanza che lei avrebbe iniettato alle povere vittime, era la stessa sostanza usata per le esecuzioni capitali negli USA. E la similitudine col “boia” è servita. Peccato che niente di ciò che è stato detto e scritto fosse vero.
ACCUSE TERRIBILI E PROCESSI INFINITI
La sua storia, piuttosto che similitudini, ispira una metafora: quella della via crucis (giudiziaria). Sette gradi di giudizio, iniziati con un ergastolo a Ravenna e seguiti da tre successive assoluzioni a Bologna. Nove anni in totale di “navetta” tra Cassazione e Corte d’Appello. Poi, finalmente, qualche giorno, fa la sentenza nei confronti dell’ex infermiera dell’ospedale di Lugo è diventata definitiva. E dice una cosa molto semplice: che la 50enne di Giovecca (RA) non è un’assassina, non uccise Rosa Calderoni, paziente che spirò nel letto d’ospedale l’8 aprile 2014. Alla fine, lo stesso procuratore generale, a dispetto dell’atto presentato lo scorso anno contro l’ultima assoluzione, si è espresso a favore del rigetto del ricorso. Resta quindi valido quel che il giudice dell’appello ha scritto nelle motivazioni prima di appendere la toga al chiodo per pensionamento. Con un atto di verità ha sostenuto che «ora, dopo 7 anni, si può dire con assoluta certezza che non esistono uccisioni avvenute in passato o morti precedentemente causate dalla Poggiali» e Rosa Calderoni «non ricevette alcuna somministrazione di potassio», e dunque, l’anziana non fu assassinata. In quelle parole c’era un riferimento indiretto a un altro caso trattato in parallelo dallo stesso collegio giudicante da lui presieduto. Quello della morte di un altro paziente, il 94enne Massimo Montanari (ex datore di lavoro del compagno dell’infermiera), anch’esso deceduto durante il ricovero nello stesso ospedale: un caso per il quale fu ritenuta responsabile in primo grado e condannata a 30 anni, tornando in carcere alla vigilia di Natale.
Due omicidi dunque: accuse che, forti di un certo chiacchiericcio interno all’ospedale sull’anomalo aumento delle morti, dipingevano la Poggiali come una serial killer, capace di somministrare dosi di cloruro di potassio tali da non lasciarle scampo.
DIFENDERSI PROVANDO
Sembra una conquista di grande civiltà giuridica ed invece è una trappola: difendersi provando significa che l’imputato deve provare la sua innocenza. Una parità con l’accusa che esiste solo sulla carta perché il pubblico ministero dispone di grandi risorse investigative, mentre l’imputato deve fare i conti con le proprie disponibilità economiche e con il ristretto perimetro delle proprie conoscenze. Specialmente, come oramai spesso avviene, quando si tratta di far scendere in campo esperti e consulenti. Nel caso di Daniela Poggi si è svolto un vero e proprio duello di consulenze sul punto centrale dell’accusa: cioè il livello di potassio al momento della morte, a partire dall’analisi dell’umorvitreo, sostanza gelatinosa prelevata dai bulbi oculari della vittima. Un tema controbattuto tra l’esperto scelto dalla Procura a suffragio dell’ipotesi dell’avvelenamento, e quello della difesa, sul quale i giudici avevano riscontrato «un dissenso pressoché unanime».
Nell’esprimere soddisfazione per l’assoluzione il legale ha commentato, su Il Corriere di Romagna, l’inatteso passo indietro dell’accusa: «C’è a volte una componente in certi tipi di processi così complessi, in cui gli aspetti di razionalità rischiano di essere messi in secondo piano rispetto all’idea che si debba giungere per forza a una condanna. Lo si è visto per esempio nell’orientamento mutevole del l’accusa, nel sostenere prima l’avvelenamento acuto, poi subletale». E ora, ha concluso, «vorrei che le fosse riconsegnato l’onore a questa persona. Che cosa facciamo per questa donna, rimasta da sola contro tutti e ora giudicata innocente? Lei lo era dall’inizio».
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