di Cristian Rovito*
Le alterazioni dell’ambiente, unitamente ad altre forme, identificano dei mutamenti che sebbene difficili da definire a causa della loro complessità ed eterogeneità, sono riconducibili all’azione irresponsabile dell’uomo.
Lo studioso del crimine si trova ad operare in un immenso laboratorio di sperimentazione teorico – filosofica, politica e per certi aspetti pratico – operativa. È utile, perciò richiamare la parabola buddista dell’elefante per evidenziare la difficoltà irriducibile che si incontra nel descrivere l’ambiente naturale, per il quale è ineludibile l’insufficienza di un solo sguardo della sua complessità e delle sue sfaccettature. Lo è ancor di più in situazione ambientali del tutto particolare, come potrebbe essere l’ambiente marino costiero.
La parafrasi dell’apologo indiano dei sei ciechi è assolutamente significativa del contesto inesplorato in cui si opera. Posti ognuno davanti a un capodoglio (nel libro il riferimento è all’elefante), ognuno ne esamina a tentoni una parte, e ciascuno conclude per suo conto: “è un muro” (i fianchi e la testa), “è un serpente” (la mandibola inferiore), “è un ventaglio” (la coda), “è una serra” (i denti). Insomma, ognuno scambia una parte per il tutto, e tutti si guardano bene dallo scambiarsi le informazioni. Questa storia è stata rivisitata in chiave ecologista nel senso che ognuno dei ciechi si ritiene titolare della verità e perciò ignora gli altri o li disprezza. Allo stesso modo sono molti i ciechi davanti al mare, che lo vedono solo come serbatoio di risorse, di materie prime, di scenari naturali o di altri valori – merce e non riescono a vedere quello che davvero esso è, cioè un insieme vivente nel quale gli uomini interagiscono come corpuscoli che ne dipendono. Ecco perché si è dinanzi ad un orizzonte che è spesso volutamente limitato dall’essere portati a vedere lo stesso oggetto sotto aspetti diversi, quasi non comunicanti, e soprattutto giuristi, urbanisti, storici, oceanografi, economisti, sociologi, antropologi elaborano linguaggi e modelli di interpretazione divergenti. La comunicazione tra saperi si rivela quindi molto utile e necessaria in un’ottica certamente interdisciplinare e inevitabilmente transdisciplinare.
In primo luogo, ciò che contribuisce a definire un fatto o un insieme di fatti come green crime è il rapporto prospettico tra la realtà oggetto di osservazione e valutazione e la visione teorico – filosofica, assiologica ed economico – politica da cui la si guarda. Il rapporto osservativo consente di ritenere se talune attività, quindi fatti o azioni sociali, causano degli effetti dannosi. Nell’ambito di nostro interesse, la definizione di un determinato fatto sociale nei termini di “crimine ambientale” è il risultato di uno specifico approccio teorico – filosofico inerente alla relazione uomo – ambiente naturale.
Se per Adolfo Ceretti (L’orizzonte artificiale. Problemi epistemologici della criminologia, Cedam, Padova, 2004) il discorso criminologico consente di vedere certi fatti e di dare loro un’articolazione all’interno della sua logica. Essa non si limita a privilegiarli: impone un certo sguardo nel campo che forma, valutando tali fatti. Il criminologo costruisce, in base ai suoi criteri, ciò che altrove viene enunciato come riflessione sul male e sulla consapevolezza: anch’egli quando prende la parola, impone una sua ottica, “fa vedere”.
Per il Forti (G. Forti L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Raffaello Cortina, Milano, 2000) è necessario sottolineare che nel maneggiare la miscela esplosiva fattuale – normativa del crimine, il criminologo con la sua scelta chiama a vita una realtà prima inesistente. Di modo che si trova nell’impossibilità di definire il proprio oggetto in termini naturalistici, dovendosi riferire ad un criterio, se non necessariamente penale, comunque normativo. L’operazione mentale con la quale sceglie di includere nel proprio campo di studio un determinato fatto sociale, qualificandolo criminale, ma anche deviante, comportamento problematico, delinquenza, etc., non è del tutto dissimile dalla sussunzione demandata al giurista. Del resto, nello specifico campo dell’ambiente, ed in particolare dell’ambiente marino, raggiungere l’obiettivo definitorio risulta ancora più difficile in ragione del fatto che le forme più gravi di danno costituiscono (hanno costituito per anni!) de facto azioni rientranti nella normale pratica sociale, essendo, tra l’altro, del tutto legali anche se costitutive di veri e propri disastri ambientali.
L’individuazione di ciò che è un crimine ambientale “è sostanzialmente il risultato di un giudizio, cioè un’operazione che non è di natura semplicemente teoretica, ma soprattutto assiologica: la scelta del criminologo di definire e mettere in luce il carattere criminale di certe condotte può avere anche il significato di un’affermazione di valore; di fronte a un ordinamento penale che non punisca certe condotte, la qualificazione delle stesse come crimini può anche suonare come una sollecitazione volta alla politica criminale a tradurre in una scelta sanzionatoria il giudizio di disvalore, quantomeno sociale, che tale qualificazione porta inesorabilmente con sé .
Sullo stesso tema:
https://criminologiaicis.it/green-criminology-e-mare-monstrum/
https://criminologiaicis.it/gli-scenari-della-criminologia-verde/
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* L’AUTORE
Cristian Rovito è un criminologo qualificato AICIS, sociologo del crimine, giurista, consulente ed esperto ambientale, operatore di polizia giudiziaria del Corpo delle Capitanerie di porto – Guardia Costiera. Scrive per diverse riviste specializzate di settore, giornali, magazine e blog.
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