(Ugo Terracciano*)
C’è una domanda alla quale Ledell Lee – un uomo giustiziato per stupro e omicidio nell’Arkansas (USA) nel 2017 – non potrà più rispondere. La domanda è: cosa significa di preciso “colpevole oltre ragionevole dubbio”? Non che gli effetti di questa locuzione non abbia avuto modo di comprenderli, proclamandosi innocente fino al momento prima che il veleno iniettatogli nelle vene lo sprofondasse nel buio eterno. Iniezione legittima, stando alla legge, perché seguita ad una condanna pronunciata appunto “al di là di ogni ragionevole dubbio”, ma a quanto pare non per questo giusta. Sì, perché passati quattro anni dalla sepoltura di Lee, nuovi test scientifici sui reperti del delitto hanno rivelato un enorme errore giudiziario.
Ora, detto questo, che cosa significa il “ragionevole dubbio” sulla cui base si sopprime o meno o si ipoteca il resto della vita di un imputato. Trattasi di un dubbio “oggettivo”, cioè non confutabile? Oppure di un dubbio “soggettivo”, cioè presente nella psiche di chi decide? Lasciamo la risposta ai filosofi del diritto. Oppure, consegniamo il quesito all’opinione dei giuristi, capaci di comprendere la Cassazione, quando afferma (vedi sentenza n. 18313 del 16 giugno 2020), che nel giudizio di merito il “ragionevole dubbio” “non incontra il limite”, fino al giudizio di legittimità quando può essere finalmente contestata la manifesta illogicità ed accertata incongruenza della motivazione. Proprio così: il giudice è libero di applicare illimitatamente il suo metro di convincimento o di dubbio, e solo dopo tre gradi di giudizio la Suprema Corte può stabilire se sia stata superata la logica del vero. Esageriamo un attimo, per capirlo: se il giudice reputa ragionevole pensare che l’imputato abbia ucciso applicando la telecinesi (nel mondo c’è chi crede a queste cose), il suo convincimento supera legittimamente ogni ragionevole dubbio: al limite se ne discuterà in Cassazione. E’ evidente che abbiamo utilizzato un enorme paradosso, ma è tanto per far capire il meccanismo.
Nel commentare il caso di Ledell Lee, Eugenio D’orio, dell’Associazione Unione dei Biologi Forensi, sul suo profilo facebook, ha ricordato quanto siano importanti le indagini difensive con l’impiego di metodologie scientifiche di ultima generazione. “Ecco perché rabbrividisco quando qui in Italia, ancora si nega l’accesso ai reperti” – scrive il dr. D’orio – “Di fatto, con il diniego, si distrugge il diritto alla difesa del cittadino”.
A dargli ragione è proprio il caso Ledell Lee, per la legge statunitense, colpevole senza ombra di dubbio, condannato a morte e giustiziato. Ma, la città di Jacksonville, citata in giudizio da alcuni gruppi per la difesa dei diritti civili insieme alla famiglia di Lee, lo scorso anno ha accettato di consentire nuovi test sulle impronte digitali e sulle prove, alla ricerca del DNA. I risultati gettano più di un’ombra di irragionevolezza su quella che era stata la ricostruzione del processo. Ora, quattro anni dopo l’esecuzione del condannato, gli avvocati hanno in mano dei risultati scientifici secondo i quali il materiale genetico trovato dell’arma del delitto appartiene ad un’altra persona mai identificata. I nuovi test hanno trovato il DNA di un uomo sconosciuto sul manico della mazza insanguinata apparentemente utilizzata per colpire a morte Debra Reese, la vittima, e lo stesso materiale è stato trovato anche su una maglietta insanguinata che era avvolta attorno al bastone. Gli avvocati degli attivisti hanno spiegato alla stampa che il profilo del DNA emerso dalle analisi non corrispondeva a nessuno presente nei database nazionale così come non identificate sono le impronte digitali che erano state scoperte sulla scena del crimine nel 1993. Secondo i legali: “mentre i risultati ottenuti ventinove anni fa dopo la raccolta delle prove si sono rivelati incompleti e parziali, è da notare che ora ci sono nuovi profili DNA che non erano disponibili durante il processo o il procedimento post-condanna nel caso del signor Lee“
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Ugo Terracciano – Presidente Nazionale AICIS
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AICIS