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Ci sono processi che non finiscono nemmeno dopo una sentenza definitiva. E non finiscono perché quella che per legge rappresenta una pietra tombale sulla vicenda giudiziaria dovrebbe anche sciogliere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza del condannato: nel nostro caso Massimo Bossetti. E dovrebbe sciogliere ogni dubbio non solo per i giudici che nei tre gradi di giudizio hanno deciso seguendo un principio di legalità, ma anche, secondo un principio di giustizia giusta, per il popolo in nome del quale la giurisdizione è esercitata. Sì, perché le sentenze sono accettate come giuste quando la legalità dell’iter giurisdizionale collima con una verità incontrovertibile dei fatti. Al di là di ogni ragionevole dubbio per tutti.
Questo – nel caso Bossetti – anche per far riposare in pace quella ragazza che, all’età di soli 13 anni, scomparve il 26 novembre 2010 e venne ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011. Cioè 12 anni fa.
Il fatto è però che a distanza di quattro anni dalla condanna all’ergastolo di quello che per la Cassazione è l’assassino la querelle sul suo caso è ancora infinita.
Indagata la P.M. – La notizia del giorno riguarda l’iscrizione nel registro degli indagati presso la Procura di Venezia del PM che aveva sostenuto l’accusa in giudizio. L’ipotesi – e sottoliniamo che si tratta di una supposizione investigativa – riguarda la violazione dell’art. 375 del codice penale che punisce con la reclusione da tre a otto anni “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale … immuta artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato. Se il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte, ovvero formazione o artificiosa alterazione, in tutto o in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento, la pena è aumentata da un terzo alla metà”. C’è da dire che il reato è punito a titolo di “dolo speciale” (cioè una volontà indirizzata proprio a conseguire quel fine) e c’è da dire anche che nel caso di specie l’indagine e il processo erano già conclusi e pertanto impossibile depistare. Resta l’ipotesi che l’alterazione delle prove inerisca ad un processo di revisione che la Cassazione ha già negato. Questioni procedurali, insomma, ma a prescindere se vi fosse stato dolo – e sottolineiamo il se vi fosse – e se dunque ci fosse stata la volontà di rendere impossibile ogni ulteriore riscontro sulla prova del DNA, sarebbe legittimo dubitare sulla tenuta di una condanna all’ergastolo pronunciata al di là di ogni ragionevole dubbio. Sta qui la “convergenza delle parallele” tra processo a carico del Bossetti e l’indagine a carico del PM.
Per quale fatto è indagato il PM – L’ipotesi investigativa a suo carico riguarda la decisione di trasferire i campioni di Dna avanzati dalle analisi fatte durante l’inchiesta, dall’ospedale San Raffaele di Milano, dove erano custoditi, all’ufficio Corpi di reato di Bergamo. I campioni erano 54 e contenevano tracce biologiche miste. Gli avvocati sostengono che nel passaggio a Bergamo sia stata interrotta la catena del freddo con il rischio di compromettere il materiale. Bossetti, aveva presentato una denuncia contro il giudice che ha deciso la confisca e la cancelliera dell’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo; la Procura di Venezia aveva chiesto l’archiviazione e la difesa, opponendosi, ha chiamato in causa il PM. Il trasferimento sarebbe avvenuto a dicembre 2019, un anno e due mesi dopo la sentenza definitiva. Più volte, durante il processo, nei tre gradi di giudizio, la difesa aveva chiesto una perizia sui reperti biologici: i giudici l’avevano sempre respinta ritenendo validi i risultati già acquisiti durante le indagini. Come elemento ulteriore, nelle motivazioni dell’ergastolo in Appello, i giudici avevano affermato che non esisteva altro materiale “idoneo” a sostenere nuove analisi. Nell’atto di opposizione all’archiviazione, il legale di Bossetti ha contestato il trasferimento delle 54 provette contenenti Dna del condannato e della vittima, dal frigorifero dell’ospedale San Raffaele di Milano all’ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo. Secondo il difensore lo spostamento avrebbe interrotto la catena del freddo e per questo potrebbe aver deteriorato il Dna rendendo vano qualsiasi eventuale tentativo di nuove analisi. L’atto di opposizione ha ricostruito la vicenda a partire dal 26 novembre 2019 quando, dopo la pronuncia della Cassazione, i legali ottennero l’autorizzazione all’accesso ai campioni di Dna. Stando a quanto scritto dal legale, le provette erano però state spostate su richiesta del PM il 21 novembre e consegnate dal primario del reparto ai carabinieri di Bergamo, per raggiungere il tribunale il 2 dicembre 2019, quindi 12 giorni dopo aver lasciato il San Raffaele.
Qualche dubbio sul furgone di Bossetti: – Un’altra prova scientifica, un altro dubbio sollevato dagli esperti. A parte il riscontro sul DNA – quello che la difesa avrebbe voluto ripetere – ora vengono sollevati ulteriori dubbi sulla prova secondo cui la povera Yara fosse salita a bordo del furgone di Bossetti. Furono riscontrate sul corpo della ragazza alcune microfibre che gli esperti dell’accusa avevano giudicato compatibili con la tappezzeria dei sedili del furgone utilizzato dal muratore.
Ora, secondo quanto riporta la gazzetta di Modena Vittorio Cianci, ingegnere meccanico dell’azienda carpigiana Lart che da 40 anni si occupa di analisi di fibre tessili avrebbe dichiarato: «Yara non è salita sul furgone di Massimo Bossetti: Le fibre tessili dei suoi vestiti non corrispondono a quelle del tessuto dei sedili del mezzo». Altra prova scientifica, altra prova su cui continuano ad essere sollevati dubbi.
La vicenda: – Lui – l’ergastolano – è Massimo Bossetti, condannato per la brutale uccisione della piccola Yara in quel di Brembate in Lombardia. E’ colui che ha dato corpo a quel fantasma inizialmente chiamato “ignoto uno” comparso sulla scena del crimine attraverso una traccia di DNA rinvenuta sugli slip della povera bambina. Un fantasma – ignoto uno – che ha preso le sembianze del Bossetti dopo una verifica di massa sul patrimonio genetico della popolazione maschile della zona di Brembate e dei paraggi.
Un problema di difesa: – Se ben ricordiamo si partitì da una piccola traccia di DNA, per cercare nella moltitudine (circa 22mila soggetti) secondo la logica: nessun sospettato tutti sospettati. Quindi, pesca a strascico nella speranza di trovare una corrispondenza genetica che appunto fu trovata. E’ “la foresta che nasconde l’albero” per dirla con William Shakespeare: e l’albero, in questo caso, è appunto Massimo Bossetti.
Ma c’è una particolarità che riguarda il diritto di difendersi, sancito dalla nostra costituzione e nei trattati universali. L’esame del campione venne fatto a carico dell’ “ignoto uno” – cioè del signor nessuno – che non avendo (all’epoca) una identità non poté partecipare – come prescrive il codice – all’esame di laboratorio, magari con i propri esperti. Da quell’esame, senza garanzie di difesa il coinvolgimento della persona del Bossetti. Finalmente gli inquirenti avevano un indiziato e anche la prova scientifica per inchiodarlo alle sue responsabilità.
La prova scientifica – Il punto chiave è intendersi sul termine “scientifico”. Cioè, è il metodo, a dover essere scientifico oppure il risultato? Il DNA è una scoperta della scienza, ma la comparazione è una questione di metodo che a sua volta deve basarsi su criteri scientifici. E’ la differenza tracciata dai pensatori tra la scienza e la tecno-scienza. Il metodo scientifico – fondato da Gallileo Gallilei – è la modalità con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà affidabile e verificabile. Addentrarsi in questo discorso sarebbe poco utile ai nostri fini. Ma ci sono due termini – “affidabile” e “verificabile” – che condizionano ogni ragionamento sulla validità di una prova penale. “Verificabile” significa che è scientificamente provato ciò che, ripetuto, fornisce sempre lo stesso risultato. Fa prova, quindi, ciò che resiste all’esame della controprova. Ora, nel caso Bossetti è il risultato che è scientifico, ma in quanto al metodo occorrerebbe valutare la possibilità della controprova.
La difesa di “Ignoto Uno” – Nessuna identità, nessuna difesa. Quindi nel laboratorio d’analisi erano presenti solo gli accusatori (se escludiamo che tutti, a prescindere, sono o dovrebbero essere al servizio della verità). Ed è da quel laboratorio che è uscita la prova che prima ha permesso di identificare, poi di incastrare Bossetti. I suoi legali hanno contestato il risultato e Bossetti ha più volte richiesto che l’analisi fosse ripetuta, questa volta con la partecipazione dei tecnici della difesa. In sostanza la difesa chiedeva l’esame di 98 reperti, fra cui le provette con 54 campioni di Dna estratti da slip e leggings di Yara, indumenti, biancheria, scarpe che la vittima indossava il 26 novembre 2010, nell’ultima serata della sua brevissima vita. Ma i reperti, sotto sequestro, erano stati nel frattempo confiscati. Un tecnicismo che dice poco, se non fosse che – secondo la difesa – i campioni erano stati conservati male o peggio – a seguito del nuovo provvedimento – deteriorati nel trasferimento dai frigoriferi dell’Ospedale San Raffaele di Milano all’Ufficio Corpi di Reato del Tribunale di Bergamo. Così, sempre secondo gli avvocati, sarebbe stata interrotta la catena del freddo col pericolo del deterioramento del tampone. Ora la nuova indagine a carico del PM – al di là della penale responsabilità – qualcosa ci spiegherà. Speriamo oltre ragionevole dubbio.
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