Chi fosse Camillo Benso, Conte di Cavour, lo sanno tutti fin dalle scuole medie, compresi gli alunni più allergici ai libri di storia. Detta in quattro parole fu il vero padre dell’unità d’Italia. Della sua vita, soprattutto quella politica, sappiamo pressoché tutto. Quello su cui invece possiamo nutrire qualche dubbio sono le cause della sua (repentina) dipartita.

Una settimana di malattia: Cavour morì il 6 giugno del 1861 dopo una settimana di malattia. Il giorno prima della morte, quando, le sue condizioni erano oramai precipitate, l’adorata nipote Giuseppina Alfieri (animatrice dei migliori salotti della capitale e donna molto influente) decise di chiamare per un (tardivo) consulto il dottor Alessandro Ribieri. Di Ribieri si possono dire tre cose: la prima è che fu un grande luminare della medicina, la seconda è che era il medico personale e grande amico di Vittorio Emanuele II (il Re d’Italia) e la terza è che tra lui e Cavour i rapporti politici erano a dir poco pessimi. Il professore fu chiamato alle otto del mattino del 5 giugno, ma evidentemente doveva essere oberato da altri gravosi impegni, poiché si presentò a visitare il primo ministro alle 17 del pomeriggio. Tanto per dare una visione del contorno, mentre Cavour combatteva con la morte, il clima circostante era tutt’altro che di apprensione per la sua sorte: a palazzo reale era in corso un gran ballo iniziato alle 9 della sera e terminato alle tre del mattino. Considerato che Cavour morì poco prima delle sette è legittimo pensare che sulla sua sorte ci fosse quanto meno indifferenza, il che non è normale essendo egli all’epoca il Capo del Governo. Comunque, il giorno 5 giugno, dopo circa nove ore dalla chiamata, il dottor Rabieri si fece finalmente vivo (aveva avuto impegni all’Ospedale Maggiore San Giovanni, disse). Si consultò con due medici: il primo un certo Rossi, personaggio mai meglio identificato, al punto che addirittura si ignora il suo nome di battesimo. Il Secondo era invece il notissimo Angelo Camillo Raffoni (tra i fondatori dell’Accademia di Medicina di Torino). Il primo ad intervenire era stato il (dottor?) Rossi, il quale aveva prescritto dei salassi di sangue. Ribieri avrebbe dovuto praticargli un salasso alla giugulare, ma ritenendo la cosa del tutto inutile ordinò solo dei rimedi insignificanti. La stessa nipote Giuseppina scrisse che il professore si limitò a suggerire di dare qualcosa da mangiare al malato perché aveva rilevato che “il polso era debole” (strano, ci sia consentita l’ironia, il polso debole in un malato pesantemente salassato …). Sarà stato anche in fin di vita ma il Conte non disdegnò il conforto di un brodino caldo, con pane tritato, ed un bel bicchiere di bordeaux e, pare, pure una tisana di lauroceraso su cui si attestarono sinistri dubbi dato che la pianta, raggiunte certe concentrazioni, diventa altamente tossica (il prunus laurocerasus contiene glicosidi cianogenetici i quali liberano l’acido cianidrico, da cui si ricava per infusione il cianuro).

Nessuno pianse: Salvo che si sia trattato di un gesto pietoso (o negletto) le persone al capezzale del Conte dovevano nutrire una considerevole fiducia nelle proprietà benefiche del vino rosso di qualità. Infatti, quando il malato cominciò a sudare freddo, le gambe gli si gelarono e incominciò ad avvertire una fitta al braccio sinistro, loro pensarono bene di dargli un altro bel bicchiere di bordeaux. Il Conte lo bevve e si assopì; fece in tempo a ricevere l’estrema unzione dall’amico e confessore padre Luigi Marocco (più noto come Giacomo da Poirino) e alle 6,45 di quel nefasto 6 giugno si spense, all’età di 50 anni, 9 mesi e 26 giorni. Se togliamo la commozione di padre Luigi (detto Giacomo), non è che negli ambienti ecclesiastici, appresa la notizia, si siano stracciati le vesta: sull’edizione del 28 giugno 1861 de “La Civiltà Cattolica” i Gesuiti scrissero che la morte di Cavour “fu un castigo di Dio ed un avviso ai suoi complici”, “una vendetta celeste”. Da parte loro i reali (e questa la dice lunga sulla riconoscenza tra gli uomini) diventati sovrani d’Italia proprio grazie a quell’uomo vietarono ai principi reali di partecipare ai funerali.

Dubbi e Sospetti: Che Camillo soffrisse di periodiche ricadute febbrili, causa una malattia (la malaria) contratta molti anni prima nelle paludi delle risaie vercellesi era ben noto. Tuttavia, con Cavour ancora in vita, il 2 giugno, l’ex Ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini, che all’epoca si trovava a Napoli, rilevò che c’erano state delle anomalie nelle cure praticate al capo del Governo in quella settimana di malattia. Non era un parere qualunque, anzi: anch’egli era un medico, specializzato alla Sorbona proprio nelle malattie tipiche delle risaie. Farini scrisse al senatore liberale Michelangelo Castelli criticando “quel cannibale di medico che aveva fatto cinque salassi al Conte”: quel “cannibale” era il fantomatico dr. Rossi di cui si erano perse le tracce, comprese quelle relative al nome di battesimo. Il giorno 5 giugno (mentre il Conte stava morendo) Diomede Pantaleoni, patriota marchigiano ed insigne medico, telegrafò al Ministro dell’Interno Marco Minghetti chiedendogli se ritenesse utile la sua presenza a Torino e, non ottenendo risposta, scrisse a Ricasoli per stigmatizzare la condotta professionale dei medici Rossi e Maffoni usando un’espressione lapidaria scevra da ogni sorta di dubbio: “Oh, io l’avrei salvato di certo”. Anche dall’opposizione si levò qualche dubbio. Il 7 giugno, il giorno dopo la morte, il deputato Lorenzo Valerio scrisse a Castelli dicendo: “Con una così robusta costituzione, a cinquant’anni morire in quel modo! Quei medici meriterebbero la morte”.

Imperizia o dolo? Cavour morì per i troppi salassi? Il dissanguamento dipese dalla negligenza o imperizia dei medici, oppure ci fu dolo? Lo stesso Ambasciatore inglese Henry d’Ideville si interrogò – nei suoi rapporti riservati alla Madre Patria – sul fatto che nonostante l’importanza del personaggio, nessuno aveva stilato una diagnosi precisa né una relazione medico-legale sulla causa della morte. In altre parole, a sorprendere l’Ambasciatore britannico fu il fatto che non si riusciva a dare un nome alla malattia (figuriamoci che non si riuscì a dare un nome completo nemmeno al medico che per primo lo curò!). Davanti ai primi sospetti ci fu chi mise subito le mani avanti per scagionare i sanitari. Il primo fu il già citato senatore Castelli che si affrettò a dire (nonostante ciò che gli avevano scritto Carlo Farini e Lorenzo Valerio): “I medici non c’entrano nulla: egli morì vittima della concentrazione continua delle idee e della costruzione del suo enorme cervello”. Insomma, per Castelli era morto di mal di testa! E non lo disse per scherzo poiché subito gli fece eco la marchesa Costanza Alfieri d’Azeglio che, commentando l’evento in una lettera indirizzata al figlio in Inghilterra, gli riferì: “i medici dicono sia morto per una paralisi al cervelletto causata dall’eccesso di lavoro”. Abbiamo il primo nobile ammazzatosi di lavoro, insomma! Tutto può essere, ma il punto è che, sin da subito, furono escluse altre possibili cause o concause. A sollevare qualche dubbio fu però un quotidiano di tutto rispetto, “L’Opinione”, all’epoca importante giornale di Torino che, nell’edizione listata a lutto del 7 giugno 1861 (il giorno dopo la morte), scrisse: “Una malattia misteriosa, che non è stata definita … come non pensare che nel popolo … si facesse strada il dubbio che la morte non fosse stata naturale?”. Ma il giornalista fu anche più sibillino nel soggiungere “… quando poi si sapeva che nella vita di Cavour aveva preso un posto notevole una donna che non era proprio uno stinco di santo”.

Cherchez la femme: Ecco che nel giallo della morte del Conte entra in scena una donna misteriosa. Aveva ragione Alexandre Dumas (padre) quando diceva: “C’è una donna in ogni caso; appena mi portano un rapporto, io dico cherchez la femme“. Nel nostro caso si trattava di una bella donna, Bianca Ronzani, e con lei prese corpo anche l’ipotesi di un avvelenamento. Bianca era una giovane e avvenente ballerina sposata con Domenico Ronzani, impresario del Teatro Regio di Torino. Il fatto è che, oltre che per l’arte, la ragazza coltivava anche la passione per gli uomini potenti. Molto potenti, dato che si dava per certo fosse stata anche l’amante di Vittorio Emanuele II il Re d’Italia. Viveva in una villa alle pendici della collina torinese e la sua casa era molto frequentata da diplomatici stranieri ed avventurieri di dubbia fama. Il rapporto della donna col Conte Cavour doveva essere di certo più che affettuoso, molto di più, anche se la cortina di protezione intorno al primo ministro non lasciava trapelare niente di più che pensieri molto maliziosi. Quando negli uffici del Governo si parlava di lei non se ne citava nemmeno il vero nome. Isacco Arton, il segretario particolare del Conte, la chiamava Lady Holland e Michelangelo Castelli citandola la chiamava “la signora R”. Qualcuno ipotizzò che ciò avvenisse non per proteggere Cavour dalle chiacchiere, ma per preservare a lei il suo pieno ruolo di informatrice e forse doppiogiochista. Il punto è capire chi informasse su chi: il Re sulle mosse di Cavour, oppure viceversa il Conte sulle faccende del sovrano? Si sa a letto (dopo un po’) si parla e nell’intimità si finisce spesso per rivelare anche qualche segreto.

Quella tisana così indigesta: Va a sapere che cosa combinò la “Signora R” l’ultimo giorno in cui il Conte si mostrò in salute il 29 maggio 1861 (una settimana prima di morire, appunto). Quella sera Cavour andrò a trovarla con giustificato riserbo nella villa ai piedi della collina. Si tratta di un fatto certo, rivelato successivamente da Michelangelo Castelli. Lì chiese un “rifresco”. Rincasando era evidentemente di umore nero e subito si mise a letto. Ma presto fu costretto a rialzarsi tra spasmi gastrici e conati di vomito. Verso mezzanotte scampanellando fece accorrere i camerieri che lo trovarono ai piedi del letto in preda a violenti dolori intestinali. Sintomi piuttosto simili a quelli prodotti da un avvelenamento, ma va a sapere. L’ipotesi però fece capolino nei giorni successivi alla morte per essere subito smorzata, e solo successivamente rilanciata attraverso un paio di libelli – il primo pubblicato nel 1871 ed il secondo nel 1892 – che parlarono apertamente di omicidio. C’è da dire che la pubblicazione del 1871, redatta da un anonimo, già nel titolo vantava la pretesa di aver risolto il giallo: “Cavour avvelenato da Napoleone III. Documenti storici di un ingrato”. La seconda pubblicazione dedicata alle “Memorie del Maggiore, cav. Domenico Cappa” si rivelò interessante per la qualità dell’autore: un agente segreto, ma con ogni probabilità si trattò di un tentativo di depistaggio. Domenico Cappa era il cugino di Rosa Varcellana, meglio nota col soprannome di la “bella Rosin”: l’amante storica di Vittorio Emanuele II. Grazie ai favori della cugina fece carriera tra le spie del Regno. L’accusa contro Napoleone III in realtà non era per nulla verosimile per cui i due libelli “rivelatori” non sono stati mai presi in considerazione dagli storici, che hanno preferito dare valore ai giudizi dei medici sulla morte di Cavour.

Un’indagine davvero molto lacunosa: Forse le perplessità sorte già dal giorno dopo intorno alla morte del primo ministro avrebbero consigliato una maggiore prudenza e soprattutto un impegno maggiore nell’indagine sulle cause del decesso. Insomma, non è che l’indagine fu carente: non ci fu proprio.

Non ci fu un esame autoptico per escludere la presenza di sostanze tossiche e quindi l’ipotesi di un avvelenamento. Eppure, l’indagine medico-legale già allora era acquisita alle scienze forensi e le circostanze della morte l’avrebbero decisamente consigliata. Non venne poi approfondita un’altra circostanza alquanto sospetta: la precipitosa fuga da Torino della bellissima Bianca Ronzani subito dopo il tragico evento. Scappò a Parigi per poi entrare subito dopo in contatto con ambienti austriaci dove si segnalò per un altro oscuro episodio: dietro compenso passò ad un viennese “collezionista di autografi” venticinque lettere compromettenti che le aveva scritto il Conte. A recuperarle nel 1894 fu l’Ambasciatore italiano a Vienna Costantino Nigra che le bruciò alla presenza di testimoni. Avrebbero offerto un contributo alla risoluzione del giallo, se di giallo vogliamo parlare? Non lo sapremo mai. Sono segreti chiusi nella tomba del Conte, in quella della bella ballerina e …. forse anche di qualcun altro.

Ugo Terracciano Presidente AICIS