di Stefania Salvati*

Molteplici sono le problematiche che attengono al tema dell’incompatibilità carceraria, molte incongruità normative, diverse le difficoltà connesse all’assistenza dei detenuti, numerose le complicazioni relative alla gestione delle urgenze. Concepire una ottimale gestione della salute negli istituti penitenziari risulta complicato.

E’ di questi giorni una infuocata polemica tra la detenzione in carcere in regime dell’art. 41 bis e la salute del detenuto stesso.

La carcerazione priva indubbiamente il soggetto della propria libertà, ma non dei suoi diritti, previsti e protetti dalla Costituzione, non perdendo il cittadino recluso del suo status, egli rimane titolare di alcuni diritti.

In ambito penitenziario vengono così a scontrarsi/incontrarsi due esigenze fondamentali ed entrambe necessarie, di tutela: da una parte diritto alla salute, in quanto diritto costituzionalmente garantito, dall’altra il carattere cautelare e di prevenzione sociale previsto per il contesto carcerario. Le esigenze medico-sanitarie, infatti, entrano in conflitto con le esigenze di custodia, abitualmente ritenute primarie.

Citando una sentenza della Corte Costituzionale, per quanto concerne i diritti che spettano ai soggetti reclusi, afferma “chi si trova in stato di detenzione, pur privato della maggior parte delle sue libertà,  ne conserva sempre un residuo, che è tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale”.

Fino al 1975, data della riforma dell’ordinamento penitenziario, il modello penitenziario era fondato sull’idea che la sofferenza e la privazione potevano condurre il soggetto al ravvedimento. Fu la legge n°354 del 1975 a risolvere l’annoso contrasto tra le previsioni costituzionali e l’ordinamento penitenziario, cercando quindi di conciliare le due istanze, quella punitiva e quella garantista.

Il diritto alla salute del detenuto trova il suo fondamento giuridico nell’art.32 della Costituzione, anche se nel carcere questa forma di tutela assume connotazioni particolari e tali da renderla difficilmente sovrapponibile a quella di cui godono i cittadini liberi.  Il carcere, infatti, non è un ospedale ed i detenuti sono pazienti sui generis. La compatibilità carceraria del malato solleva di conseguenza questioni medico-legali di carattere sia particolare che generale.

Le condizioni di salute possono essere particolarmente gravi riguardo alla eziologia, alla prognosi etc., ma la gravità dell’infermità potrebbe anche derivare dalla suscettibilità al trattamento in sedi diverse da quella penitenziaria e dal possibile peggioramento se il regime carcerario venisse mantenuto. Possiamo anche definire la gravità dello stato di malattia in relazione alla non suscettibilità di adeguata cura in regime di detenzione, sia pure in attrezzai istituti penitenziari, o in ospedali civili, o in altri luoghi di cura. E il fatto che il ministero della Giustizia non abbia competenze specifiche in materia sanitaria fa sì che non ci sia un adeguato controllo terapeutico ed epidemiologico di quanto avviene”. Il contratto del personale sanitario in carcere, oggi, è per l’80% “a parcella”: l’amministrazione, quindi, paga un ortopedico o un cardiologo per svolgere l’attività medica. Dal che ne derivano, tra l’altro, ovvi pericoli di discriminazione tra detenuti. Quindi: medicinali insufficienti, pochi dottori, difficoltà, nei piccoli istituti, a garantire la guardia medica 24 ore su 24, come previsto della legge, metadone che in alcune carceri,violando le norme, non viene somministrato.

Dal 14 giugno 2008, le competenze sanitarie della medicina generale e specialistica penitenziaria, i rapporti di lavoro e le risorse economiche e strumentali, prima di allora in capo al Ministero della Giustizia, sono state trasferite al Sistema sanitario nazionale e quindi a Regioni e Asl. Il D.P.C.M. 30 maggio 20081 completa il trasferimento di competenze iniziato con il D.Lgs. n. 230/19992 , dell’allora ministro della salute Rosi Bindi, attraverso il quale era stata decisa la riconduzione della sanità penitenziaria nel Servizio sanitario nazionale.

Una riforma voluta da Rosy Bindi, che con una legge delega, conferì al governo l’incarico di trasferire l’assistenza sanitaria dei detenuti dal ministero di Giustizia a quello della Salute. Si è trattato, indubbiamente, di un passaggio assai importante, epocale per alcuni, frutto di un ampio e lungo dibattito sviluppatosi nel corso degli anni 90, grazie a un movimento di opinione a favore del passaggio delle competenze sanitarie penitenziarie al servizio sanitario nazionale che, partendo dall’esperienza di singoli e passando attraverso le associazioni di volontariato attive nelle carceri, arrivò a coinvolgere Enti locali, sindacati, autorità politiche. Si tratta di una pietra miliare per la tutela della salute dei detenuti e di un importante passo avanti per la civiltà stessa dell’ordinamento penitenziario. Un passo avanti anche nella ricomposizione di un rapporto positivo tra carcere e società. Sin dall’istituzione dell’ordinamento penitenziario con la L. 354 del 1975, una delle materie più

controverse e oggetto di acceso dibattito circa la determinazione di competenze è stata la tutela della salute. La questione sanitaria è ai primissimi posti nella lista del dolore carcerario.

La riforma iniziata con la legge 419/1998, mediante la realizzazione di forme progressive d’inserimento nel Servizio Sanitario Nazionale di personale e di strutture sanitarie dell’Amministrazione Penitenziaria, dopo una serie di decreti e provvedimenti mirati, tra le altre cose, alla prevenzione e all’assistenza e cura dei detenuti Oggetto del tossicodipendenti, nonché al trasferimento delle altre funzioni sanitarie, con la legge finanziaria 2008 dispone il definitivo passaggio di tutte le funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in questione dal Dipartimento del’amministrazione penitenziaria al SSN.

Art.41 bis

Il regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis, co. 2, ordinamento. Penitenziario, è una forma di detenzione particolarmente rigorosa, cui sono destinati gli autori di reati in materia di criminalità organizzata nei confronti dei quali sia stata accertata la permanenza dei collegamenti con le associazioni di appartenenza.

Tale misura è stata introdotta nell’ordinamento all’indomani delle stragi di Capaci e di via D’Amelio (con il d.l. 8.6.1992, n. 306, conv. in l. 7.8.1992, n. 356), per rispondere ad un problema che anche quei drammatici eventi avevano messo in evidenza, ossia l’incapacità della pena detentiva, nella sua ordinaria modalità di esecuzione, di neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, continuavano dal carcere ad esercitare il loro ruolo di comando, impartendo ordini e direttive agli associati in libertà.

Il presente contributo è il regime detentivo speciale del 41 bis, misura introdotta nel nostro ordinamento per neutralizzare la pericolosità di detenuti che, in virtù dei legami con le associazioni criminali di appartenenza, sono in grado di continuare a delinquere dal carcere. Il regime detentivo speciale, riducendo drasticamente le occasioni di contatto tra i detenuti e l’esterno e tra gli stessi detenuti, ha dunque come scopo quello di interrompere, o meglio ridurre, i collegamenti con le associazioni, così rendendo effettiva la funzione di neutralizzazione propria della pena detentiva.  Il regime detentivo speciale, riducendo drasticamente le occasioni di contatto tra i detenuti e l’esterno e tra gli stessi detenuti, ha dunque come scopo quello di interrompere, o meglio ridurre, i collegamenti con le associazioni, così rendendo effettiva la funzione di neutralizzazione propria della pena detentiva.

La stessa Costituzione e in modo esplicito la Corte Europea per i diritti dell’uomo  sono ad affermare la sussistenza a carico dello Stato dell’obbligo di adottare misure adeguate per la protezione della collettività dalle condotte dei soggetti di cui sia stata accertata la pericolosità. Nella sua originaria forma, il regime detentivo speciale si configurava come una misura di carattere di emergenza, introdotta nell’ordinamento in via soltanto temporanea: secondo quanto previsto dall’art. 29 del d.l. n. 306/1992, infatti, la disciplina contenuta nel comma 2 dell’art. 41 bis della legge di ordinamento penitenziario doveva avere efficacia solo per tre anni dalla data di emanazione del decreto. L’immediata percezione dell’efficacia della norma, tuttavia, ha indotto il legislatore a prorogarne in più riprese la validità, sino all’entrata in vigore della l. 22.12.2002, n. 279, che ha reso permanente il regime detentivo speciale all’interno dell’ordinamento. Dalla Corte costituzionale che, tra il 1993 e il 2002, è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla sua legittimità sotto svariati profili , non ha mai censurato la legittimità del 41 bis, riconoscendone l’utilità nel contrasto al fenomeno mafioso – si è impegnata in un’opera di profonda ricostruzione della disciplina, fissando dei ‘paletti di costituzionalità’, entro i quali l’Amministrazione penitenziaria si è poi mossa nel dare applicazione all’istituto. Ad oggi quindi il carcere al 41bis e la detenzione sono totalmente legali pur garantendo al detenuto 41 bis di usufruire di tutte le tutele legali dettate dalla Costituzione.

Un primo presupposto, oggettivo, è relativo al titolo di reato: il 41 bis, infatti, si applica ai detenuti o agli internati «per taluno dei delitti di cui al primo periodo comma 1 dell’art. 4 bis o comunque per un delitto che sia stato commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l’associazione di tipo mafioso». Nonostante che l’elenco dei delitti contenuto nell’art. 4 bis sia decisamente nutrito, l’esame dei dati statistici consente di rilevare come, nella prassi, il 41 bis sia una misura applicata quasi esclusivamente agli autori di reati di stampo mafioso (statistiche contenute nel  Rapporto sul regime detentivo speciale della Commissione parlamentare per la tutela e la promozione dei diritti umani, aprile 2016, da cui si evince che più del 90% dei soggetti sottoposti al 41 bis sono imputati o condannati per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.).

 

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L’AUTORE

Stefania Salvati,  Criminologa AICIS qualificata secondo la legge n. 4/2013 ed entomologa forense.

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