(Deborah Bottino*)
La dottrina antipsichiatrica e la percezione di malattia mentale come socialmente pericolosa.
La dottrina antipsichiatra è un movimento eterogeneo che trova il massimo del suo sviluppo negli anni ’50-’70. I principali esponenti internazionali di queste tendenze possono essere identificati in David Cooper, che è stato il primo a impiegare il termine “antipsichiatria” anche se Cooper parla di “non-psichiatria”; Ronald Laing e Thomas Szasz. In sostanza l’anti-psichiatria si colloca in antitesi a tutto ciò che fino ad oggi è inteso come psichiatria, ossia tutto quella sezione della medicina deputata al trattamento delle malattie mentali. Il pensiero su cui si poggia questa dottrina trova le sue fondamenta nel rifiuto dell’esistenza dei disturbi mentali, la motivazione è correlata al fatto che questi pensatori rifiutano l’esistenza del criterio di giudizio che permette di individuare l’esistenza della follia, giacché si deve partire dall’esistenza di concetti opposti: come l’ordine naturale che identifica il suo opposto nel caos, la logica con l’illogica ovvero il bene con il male, considerando che l’antipsichiatria assume un approccio relativista; pertanto per ammettere l’esistenza della follia, si deve ammettere l’esistenza del concetto di normalità, in altre parole chi stabilisce cosa sia normale e cosa non lo sia. Questa corrente di pensiero si fonda su alcuni punti salienti che hanno come fulcro principale il concetto di violenza, che il soggetto subisce all’interno del substrato socio-culturale: in primis, la famiglia, ove le potenzialità del bambino prima e dell’adolescente poi vengono represse; all’interno della società ove ogni manifestazione di ribellione viene etichettata come follia; nelle stesse strutture volte al trattamento terapeutico, ove le cure, in sostanza, impediscono all’individuo di liberarsi di queste interiorizzazioni acquisite nel passato. Le posizioni antipsichiatriche non negano il disagio o la sofferenza psicologica, né l’attuazione di quei comportamenti illogici o non comprensibili ai più in presenza di talune condizioni, però asseriscono che tutto ciò non sia ascrivibile a una malattia ma a influenze negative che provengono dall’ambiente e dalle contraddizioni sociali. L’idea precipua è il rigetto che i disturbi mentali debbano essere curati come una qualsiasi malattia organica; il rigetto dei manicomi e tutte le possibili modalità di trattamento coercitivo e il rifiuto dell’impiego di tecniche psicologiche o psichiatriche per la riabilitazione di soggetti devianti. Il movimento, però, è andato progressivamente scemando sul finire dei movimenti di contestazioni degli anni ’60. Certo all’antipsichiatria va riconosciuto di aver esortato la creazione di un dibattito sui rapporti fra società, medicina e malattia mentale e principalmente di aver coadiuvato al rinnovo dell’assistenza psichiatrica, sottolineando la responsabilità dell’opinione pubblica in merito al fallimento dei tradizionali manicomi.
Le critiche dell’antipsichiatria si rivolgono a più ambiti, dalla categorizzazione dei manuali diagnostici, alla concentrazione sui fattori biochimici e su quelli genetici, al rapporto tra la psichiatria e l’industria farmaceutica, alla psichiatria forense, ai trattamenti sanitari obbligatori. Imprescindibile è citare la critica che verte sull’affidabilità e la validità delle diagnosi psichiatriche sia nelle situazioni controllate, sia nella pratica quotidiana. La categorizzazione dei già citati manuali diagnostici rende frequente il fenomeno della comorbilità, ossia il fatto che un soggetto soddisfi contemporaneamente i criteri per due o più disturbi, molto spesso c’è una vera e propria sovrapposizione tra stati patologici distinti, in soggetti altrettanto differenti: gli psichiatri raccomandano di operare una diagnosi differenziale, in questi casi, e di affidarsi soprattutto al giudizio clinimetrico. Dal canto loro gli esponenti della dottrina antipsichiatrica asseriscono, altresì, che esistano difficoltà nell’uso dei criteri diagnostici standard per diversi Paesi, culture, società, genere ed etnia: la pratica di una psichiatria che, di fatto, risulta bianca e con una certa egemonia maschile potrebbe creare asimmetrie verso altri gruppi socio-culturali. L’accusa essenziale dell’antipsichiatria alla scienza ufficiale allude al fatto che quest’ultima polarizza la sua attenzione sulla malattia individuale e sulle basi biologiche, omettendo la genesi sociale dei disturbi psichici. La pratica psichiatrica sarebbe, ergo, non terapeutica poiché i ruoli psichiatra-paziente riproducono sotto una forma ex nova, i rapporti di potere e di vessazione alla base dei disturbi da curare. Ancora si può citare la critica rivolta al processo di etichettamento di un certo comportamento come malattia mentale che potrebbe produrre illazioni negative, critica che si ispira alla labelling theory, la teoria dell’etichettamento, germogliata nell’ambito della criminologia e applicata alla malattia mentale dal sociologo Thomas Scheff, nello studio “Being Mentally III” del 1966.
Il contributo della sociologia: la teoria dell’etichettamento
Le opere elaborate da Goffman, Asylums e Stigma, hanno avuto il merito di denunciare la psichiatria senza essere dotate di veemenza ideologica e, in apparenza, senza alcuna influenza politica. Goffman vanta la capacità di analizzare i fenomeni mediante una lente priva di giudizio e completamente neutrale, ereditata da Lemert, presupposto basilare per un progetto di ricerca scientifica. La teoria antipsichiatra deve molto alla sociologia e in particolare alla corrente nella quale si delinea la labelling theory, nonostante quest’ultima sia stata anche derisa e definita come espressione estrema di sociologismo, orientata a sostenere che qualsiasi fenomeno deviante sia l’esito dell’organizzazione sociale, un’asserzione che non è mai stata propugnata dai suoi sostenitori. La sociologia della devianza opera una distinzione tra devianza primaria che consiste in un comportamento che viene percepito dall’agglomerato sociale non in linea con le norme sociali, in altre parole un comportamento che infrange la rete di regole, implicite ed esplicite, che regolano le relazioni tra consociati; e la devianza secondaria che delinea la conseguenza della modalità in cui la società, in maniera informale o formale, risponde a un dato comportamento, determinando un’accezione negativa e una carriera deviante.
È il sociologo Thomas Scheff che elabora la teoria sociologica di malattia mentale, impiegando proprio la teoria dell’etichettamento in questo ambito. Lo stesso Scheff rileva che le sue ipotesi, verificate non totalmente, richiederebbero approfondimenti scientifici per arrivare a una vera e propria teoria sociologica sulla malattia mentale, teoria di ricerca in via di strutturazione ed evoluzione che non ha trovato seguito. Questo insuccesso probabilmente è dovuto, in primis, al revival della psichiatria nosografica e organicistica che ha avuto il suo boom proprio negli anni ’80. Gli esponenti della scienza psichiatrica hanno sfruttato un punto di deficit della teoria dell’etichettamento: l’incapacità di spiegare la devianza primaria, avanzando l’ipotesi di una certa vulnerabilità costituzionale del paziente e portando questa ipotesi fino al limite esponenziale di assumere la vulnerabilità genetica come fattore di base per l’insorgere del disturbo psichiatrico. Altro elemento che ha decretato l’insuccesso della teoria di Scheff è stata probabilmente il c.d. “basaglismo” (dal nome del suo autore Basaglia) che si è rivolto a contrastare i processi di istituzionalizzazione del disagio psichico, impiegando proprio i risvolti della labelling theory ma avanzando una critica radicale al sistema capitalistico e dando poca attenzione alla reale faccia della medaglia della malattia mentale, ossia la devianza primaria, il motivo perché un giovane palesa un delirio, un episodio maniacale o un episodio depressivo maggiore improvvisamente. Questo contenimento della problematica della causalità dei fenomeni psicopatologici ha agevolato il ritorno della psichiatria, che ha fornito una risposta scientificamente fragile, ossia quella della vulnerabilità e del disordine biochimico, ma di attrazione sull’opinione pubblica. Non si sta cercando di creare una contrapposizione tra teoria sociologica e teoria intrapsichica, ma altresì provare a comprendere come l’appartenenza socio-culturale segna lo sviluppo della personalità e la costruzione della struttura della personalità, che può protendere verso una normalizzazione ovvero un’incapacità di indirizzare l’esperienza personale per sfuggire alla devianza. Da questa prospettiva l’opera di Scheff è interessante sotto più aspetti ma quello più caratterizzante è l’analisi sull’interiorizzazione del pregiudizio psichiatrico nei pazienti stessi. Alcuni di questi ultimi accolgono l’etichettamento psichiatrico e le conseguenze che apporta, altri, una minoranza, si ribella ma proietta esternamente quel pregiudizio che infine condivide ad esempio asserendo che gli altri siano pazzi. L’obiettivo precipuo dell’antipsichiatria è sostenere la lotta contro l’ideologia alla base della psichiatria, la quale porta il peso di aver dato adito a una tradizione culturale di lunga data, che tutt’oggi è viva e permane in quei soggetti che palesano la fenomenica psicopatologica e li spinge a negare la sofferenza per eludere il processo di etichettamento che conduce all’inganno dell’assenza della malattia che gli psichiatri considerano un patognomonico di questa. Le teorie sociali sulle “malattie mentali” evidenziano una problematica di fondo, i termini impiegati nella nostra società con riferimento a questa fenomenica deteriorano l’esito della teoria stessa. La terminologia medica di “malattia mentale” si focalizza su un processo che avviene internamente all’individuo: l’insorgere e il decorso dell’infermità. Assumere una prospettiva sociologica consente di limitare le conseguenze di questa ipotesi. Essenziale è esaminare il concetto di “sintomo psichiatrico” che è riconducibile al comportamento che configura l’esistenza di un substrato patologico, giacché l’esistenza della malattia mentale non può essere comprovata nella maggior parte dei casi scientificamente, vale a dire con esami ad hoc sulla base di componenti organiche; è necessario discutere il comportamento sintomatico in termini che non comportino la presunzione di malattia. In realtà i concetti che appaiono più appropriati per discutere i sintomi psichiatrici da un punto di vista sociologico sono la trasgressione alla norma e la devianza. Il primo concetto concerne un comportamento che violi chiaramente una delle regole condivise dal conglomerato sociale e che i sociologi definiscono come norme sociali. Se si prova a considerare i sintomi delle malattie mentali come violazioni di norme sociali, bisognerebbe dapprima specificare quale tipo di norme sociali, nella maggioranza dei casi colui che viola le norme non trova di contro l’imposizione di un’etichetta quale “malato di mente” ma tutt’altro come ad esempio quello di maleducato, ignorante, criminale, immorale, in base, appunto, alla norma in questione. Alcune norme sono addirittura date per scontate dai membri giacché il consenso del gruppo è totalizzante, per citarne alcune la distanza fisica tra due interlocutori, lo sguardo rivolto verso la persona ecc.
Rimanendo nell’arco del discorso in merito alla parificazione delle violazioni delle norme sociali con le malattie mentali, è bene introdurre il concetto di devianza formulato da Becker, il quale suggerisce che quest’ultima può essere considerata come una qualità della risposta degli individui a persone che hanno in comune l’aver commesso la stessa azione, ma sono coloro che sono stati stigmatizzati come tali. Secondo Becker è necessario fare una differenziazione, per fini scientifici, fra trasgressione alla norma e devianza: quest’ultima è conseguenza delle risposte degli altri all’azione di un individuo; da questo deriva che chi studia la devianza non può trattare le persone che hanno ricevuto tal etichetta come una classe omogenea. Tra l’altro bisogna anche considerare che non è certo che gli individui abbiano materialmente trasgredito a qualche norma, giacché il processo che conduce a ottenere il marchio non sempre include la trasgressione. Inoltre non è detto che chi effettivamente ha trasgredito a una norma abbia, di fatto, subito il processo che porta al marchio, accade, infatti, che alcuni possano essere sfuggiti a questa rilevazione e pertanto siano esclusi dalla categoria ”deviante”. Perciò, la trasgressione per Becker indica la violazione di norme sociali mentre la devianza indica azioni che hanno ricevuto pubblicamente il marchio di violazioni di norme. Impiagando questa distinzione, si può classificare parte dei sintomi psichiatrici come esempi di trasgressione alla norma o di devianza residua. La cultura di riferimento fornisce un glossario di termini che deriva dal tipo di norma infranta e dal comportamento posto in essere, come ad esempio il delitto, la perversione, l’ubriachezza. Oltre a questa categoria sussiste una categoria residua di diversi tipi di violazione cui la cultura non fornisce esplicito marchio che antropologicamente discende dalla società di riferimento, come la stregoneria, l’esaltazione o appunto la malattia mentale. Molte di queste trasgressioni per le quali non esiste marchio esplicito fornito dalla società tendono a stigmatizzare il violatore come un malato di mente. Goffman, sviluppa il concetto dell’esistenza di una classe di norme sociali che governano gli individui nelle modalità di comportamento dinanzi alla presenza reale o potenziale di altri. L’autore argomenta sulle norme che regolano il fenomeno dello “stare occupati”, asserendo che i sintomi psichiatrici come la fuga dalla realtà e le allucinazioni possano essere considerati come violazioni di regole residue. Nell’osservare il comportamento dell’essere disimpegnati, Goffman nota come sia il contesto a rendere accettabile o meno un certo tipo di comportamento: il guardare fuori dal finestrino, quando si viaggia in treno o in aereo, che configurano una certa inattività, può essere consentito giacché è il contesto che lo istituzionalizza come un comportamento del tutto normale; se ciò accadesse in una situazione in cui, invece, si dovrebbe fare altro e il soggetto si tirasse indietro da ciò di cui dovrebbe occuparsi, allora in questo caso il comportamento estraneo alla situazione potrebbe essere definito come fuga dalla realtà. La regola dell’essere “occupato” non è una regola formale, non viene declamata, ma è data per scontata, ergo considerata come regola residua. Per spiegare il concetto di devianza residua Goffman descrive due tipi di occupazione “l’essere lontano” e “l’occupazione occulta”. Con la prima s’intende una situazione in cui A un soggetto, mentre in apparenza partecipa a un’attività inserita in un contesto sociale, è consentito deviare la sua attenzione da ciò che gli altri considerano mondo reale e abbandonarsi a un mondo non reale al quale è dato solo a lui accedere: per fare alcuni esempi si può pensare al rivivere esperienze passate portare a termine occupazioni parziali, mentre si trova a “essere lontano”, occupazioni svolte con inerzia, in maniera automatica e inconscia. L’essere lontano, invece, assume accezione negativa quando incorre nella censura pubblica, ossia quando avviene in un contesto socialmente inaccettabile, si può, quindi, affermare che sussistono regole residue e quando queste vengono violate allora l’essere lontano, assume la definizione di fuga dalla realtà e si configura come manifestazione di malattia mentale. “L’occupazione occulta” è un sottogenere “dell’essere lontano”. Laddove l’individuo dà l’impressione più o meno giustificata di non essere conscio, la psichiatria definisce questa situazione “allucinazione” e “delirio”. Accanto a queste attività si affiancano altre corporee, ove l’individuo sembra svolgere un compito che, però, non dotato di significato, come accade ad esempio nel paziente che tiene in mano un feticcio; in questo caso viene adoperato il termine manierismo ovvero “atto rituale” o ancora “atteggiamento posturale” ma che di contro, non sono chiari in merito a quali siano gli atti naturali. Appare, ergo, che “l’occupazione occulta” venga a sovrapporsi a comportamenti che di per loro sono definiti come anormali. C’è da dire che, anche in questo caso, vi è una correlazione stretta con il substrato culturale di riferimento che governa la definizione di ciò che è normale e ciò che è definibile come anormale, osserva Goffman che in alcune culture la conversazione con uno spirito non presente è accettabile, se tenuta da persone autorizzate dalla collettività, come la semplice conversazione telefonica nella società occidentale. Se la teoria avanzata dai sociologici può trovare conferma, ossia la maggior parte dei sintomi delle malattie mentali possono essere classificati come violazioni di norme residue di una specifica cultura, allora questi possono essere sottratte al dominio degli eventi fisici universali, ove, oggi, la psichiatria li colloca insieme ad altri sintomi indipendenti dalla cultura, come la febbre ad esempio, e possono divenire oggetto di ricerca sia dell’antropologia sia della sociologia, proprio come accade per qualsiasi altra manifestazione del comportamento sociale. L’altro effetto provocato dalla ridefinizione dei sintomi psichiatrici in termini di devianza residua è il rilievo che viene dato al contesto in cui si verifica il comportamento sintomatologico. Goffman dimostra come sia l’essere lontano sia le occupazioni occulte (violazioni di norme) non sono di per loro motivo di censura: questa avviene laddove questi atti siano posti in essere da persone non qualificate o in contesti inappropriati. Nonostante la psichiatria sembra mostrare più attenzione al contesto sociale, le diagnosi comunque si basano prettamente sulla presenza o meno del comportamento sintomatico, trascurando invece il contesto in cui il sintomo si manifesta.
L’istituzione sociale della pazzia
Fra i fautori della critica all’impiego del modello medico applicato alle “malattie mentali”, campeggia lo psichiatra Szasz che sostiene che la malattia di mente (che lui definisce di niente) sia, in realtà, un mito e che la natura di questa non sia medica e sostiene che non esistano avversari come le malattie da curare ma sussistano solo problemi dell’esistenza biologici, economici, politici o sociopsicologici. In sostanza Szasz fornisce un’immagine della malattia mentale più peculiare, con la funzione di mascherare l’amarezza dei conflitti morali nelle relazioni umane. La concettualizzazione di Szasz sulle funzioni sociali e non mediche di malattia mentale è comunque soggetta a critiche di natura sociopsicologica. Nel suo lavoro, Szasz assume che i disturbi mentali siano visti all’interno di un modello che definisce “di gioco del comportamento umano”, ad esempio cita l’isteria, la schizofrenia come la “personificazione” d’individui malati da parte di coloro, il cui vero problema concerne i problemi dell’esistenza. Il termine “personificazione” designa una distorsione voluta dal paziente, in sostanza tra modelli di comportamento dell’isteria, della simulazione e della frode le differenze dipendono solo dalla prospettiva con cui si descrive il comportamento. Oltre al modello di comportamento si può citare quello di interpretazione di ruolo, che mette in risalto aspetti involontari che Szasz, tende, invece, a tralasciare. Il modello d’interpretazione di ruolo viene considerato come parte di un sistema sociale, in cui l’individuo interpreta il suo ruolo modellando il suo comportamento in conformità a indicazioni e atti delle persone con cui interagisce. Spesso i ruoli alternativi vengono esclusi e quello offerto diviene l’unico modo con cui l’individuo può affrontare la situazione. Lo stereotipo della malattia mentale viene interiorizzato nell’immaginario collettivo nella prima infanzia, l’autore asserisce che il termine “matto” viene probabilmente appreso dai bambini durante i primi anni della scuola elementare. L’argomento non viene mai definito in maniera chiara ai bambini giacché gli adulti in merito sono spesso vaghi ed evasivi. Questi stereotipi sulla pazzia vengono amplificati nell’interazione sociale, anche laddove gli adulti acquisiscano conoscenze mediche in merito, questi cliché tradizionali continuano a sussistere contemporaneamente alle concezioni mediche poiché ricevono conferme da parte dei mezzi di comunicazione di massa e da altri strumenti socializzanti, dalle campagne delle pubblicità progresso sulla salute mentale alle conferenze televisive degli psichiatri, dagli articoli su riviste e sui giornali. Uno studio di Nunnally comprova come attraverso un’analisi di dati ampi e sistematica condotta su televisione, radio e giornali, questi stereotipi siano si presentano in maniera preponderante: “I mezzi di comunicazione di massa accentuano nelle loro presentazioni la stranezza dei sintomi dei malati di mente. E’ stata per esempio registrata 89 volte l’informazione relativa al I fattore (la concezione che l’aspetto e le azioni del malato di mente siano diversi da quelli delle persone normali). Di queste, 88 affermano il fattore, indicano, cioè, o suggeriscono che l'”aspetto e le azioni” della gente che ha problemi di salute mentale siano “diversi”: solo una risposta negava il I fattore. Nei drammi televisivi, per esempio, il malato entra spesso in scena con lo sguardo fisso e gli occhi vitrei, la bocca spalancata, mormorando frasi incoerenti e ridendo in modo incontrollabile. Anche le persone affette da quelli che dovrebbero essere considerati i disturbi più lievi, le fobie e le ossessioni nevrotiche, vengono presentate come se avessero strane espressioni sul volto e compissero azioni bizzarre.”
Sempre più spesso gli atti di violenza efferati vengono correlati alle malattie mentali, anche se le prove sono scarse o non sussistono. I mass media rimarcano questa tendenza a inserire nelle cronache di queste notizie giudizi sul soggetto, asserendo che il soggetto probabilmente soffra di un disturbo mentale ovvero che sia stato sottoposto in passato a trattamenti terapeutici psichiatrici. Mediante queste cronache gremite di pregiudizi, il lettore crea una congettura in merito al fatto che omicidi, rapimenti e altri atti di violenza siano compiuti maggiormente da soggetti che presentano disturbi mentali rispetto alla popolazione generale. Una congettura che in realtà è priva di fondamenta, giacché diversi studi hanno dimostrato che l’incidenza dei reati commessa da malati psichiatrici è molto più bassa di quella della popolazione generale. Fra i tanti studi, uno dei più importanti e significativi, giacché ha vagliato un campione incredibile, circa 35000 persone seguite per un lasso di tempo ampio (qualche anno) con lo scopo di valutare, se durante il periodo di osservazione, ci fosse un aumento del rischio di violenze e se questo aumento fosse dovuto alle peculiarità del disturbo mentale. In questo studio di Elbogen & Johnson sono state esaminate tre variabili: il disturbo mentale grave (A), l’abuso di sostanza (B) e precedenti episodi di violenza (C), infine una variabile NONE che indica una categoria raggruppante le persone che non appartengono a nessuna delle precedenti.
La categoria NONE e la categoria A, ossia i portatori di disturbi mentali, presentano un rischio di violenza sensibilmente basso, o meglio non vi è differenza tra i soggetti che soffrono di un disturbo mentale e i soggetti completamente sani. I dati cambiano, soprattutto sulla variabile C ossia i precedenti episodi di violenza, qui vi è un sensibile aumento del rischio di atti violenti dal punto di vista statistico. Anche considerando le variabili da una prospettiva di insieme vi è un cambiamento significativo laddove si considera la variabile C.[1] La prospettiva di ricerca, come dimostrato, permette di demolire questi stereotipi ma la pratica giornalistica non propone al pubblico questa visione. I mass media hanno creato un rapporto stretto e ineludibile tra la malattia mentale e la violenza e probabilmente questa correlazione con la violenza (violenza che spesso può essere imprevedibile) ha messo in evidenza anche una certa incapacità nella cura di questi soggetti. Secondo un calcolo approssimativo, negli Stati Uniti ci sono circa 600.000 adulti segregati negli ospedali psichiatrici e un numero molto più ampio di ex pazienti, i giornalisti che quotidianamente raccontano gli eventi della giornata tendono spesso a riferire azioni violente poste in essere da pazienti o ex pazienti, mentre raramente (o forse mai) si prodigano a scrivere di tutta quella vasta categoria di pazienti che invece non pone in essere azioni violente. La stampa ha questa propensione nell’essere selettiva nelle notizie, proponendo una selezione che mira a “attestare” che siano i malati di mente i soggetti più violenti e che questi possano manifestare questa violenza in maniera inattesa. Tale selezione di cronaca ha un impatto enorme perché consente di corroborare gli stereotipi sulla malattia mentale diffusi nelle fila dell’opinione pubblica; anche laddove i giornali si limitino a impiegare questa modalità d’informazione, l’esistenza degli stereotipi non verrebbe meno. Lo stereotipo conduce inevitabilmente a generare nella società una paura irrazionale nei confronti dei soggetti portatori di disturbi mentali, giacché le statistiche riportano che la probabilità che si manifestano episodi di violenza, come quelli esposti dai giornali, è una su un milione, tuttavia la gente è riluttante alla vicinanza con tali soggetti poiché lo stereotipo strutturato che caldeggia nell’immaginario collettivo è così diffuso e marmoreo che genera, appunto, una paura irrazionale. Non sono solo i mass media, però, a veicolare e a rafforzare lo stereotipo, difatti anche nella conversazione ordinaria, negli aneddoti o nelle convenzioni si tende a inserire riferimenti in maniera automatica e inconscia; come accade, ad esempio, nella conversazione informale, ove si usano frasi del tipo “Sei pazzo?”, ovvero “Qui è un manicomio” per indicare disordine, o ancora “Si ride come matti” per indicare una situazione particolarmente divertente. Espressioni che vengono impiegate anche da operatori della salute mentale come psichiatri, psicologi o sociologi, che dovrebbero essere interessati a scardinare queste concezioni ma queste espressioni sono totalmente parte del linguaggio ordinario che bisogna riflettere attentamente per eluderle dalla conversazione. Nel linguaggio l’impiego delle parole “pazzo” o “matto” implica delle immagini ben precise come un comportamento selvaggio e incontrollato o disapprovato da altri: un marchio, dunque, o un sottile senso di ridicolo. Queste immagini, socialmente costruite, sono simili a quelle contenute negli stereotipi razziali ed etnici, come ad esempio lo stereotipo sugli ebrei come persone che imbrogliano e sono eccessivamente attaccati al denaro. Come possono essere abbattuti, dunque, questi stereotipi? Perché sono così resistenti al mutamento? Si è ipotizzato che sostanzialmente sono funzionali all’ordine sociale e vengono interiorizzati in maniera naturale da tutti i consociati, in definitiva si può affermare che il concetto di disordine mentale delinea la funzione di preservare la morale corrente, come è visibile in alcune società primitive, ove il concetto di “invasamento” o “possessione” è impiegato per spiegare sogni, malattie, disturbi mentali, morte improvvisa e altri fenomeni non spiegabili; in questo caso i consociati hanno un vantaggio psicologico nel credere nell’invasamento perché danno senso a ciò che appare insensato.
Come sopracitato la società davanti ad una trasgressione residua genera una reazione che spesso è il rifiuto, ma non sempre la reazione s’identifica nel rifiuto. In alcuni casi la reazione è diversa e se ne esagera i toni, distorcendone l’entità e il grado di violazione, si sta parlando del cosiddetto “marchio” introdotto da Garfinkel nella sua descrizione della “degradazione”, anche Goffman ha osservato un qualcosa di simile nella sua spiegazione in merito al “discredito” di cui soffrono i pazienti mentali. Secondo quest’ultimo, la cartella clinica del paziente non viene usata in maniera regolare per annotare quelle situazioni in cui il paziente ha manifestato la sua volontà di lottare contro le difficili situazioni della vita, anzi la cartella ha un uso votato a stabilire una media approssimativa della sua condotta passata, un elenco di quelle occasioni in cui si possa estrarre un certo significato sintomatico, ossia la sua anamnesi. È palese, che molto spesso, la società alla trasgressione reagisca cercando di rinvenire nel passato del soggetto qualsiasi segno di anormalità valido a provare che il soggetto è sempre stato un deviante. Due domande fondamentali sorgono:, la prima concerne il fatto che se la trasgressione nasce da diverse origini (fisiche, psicologiche e ambientali) allora dove si sviluppa l’uniformità di comportamento che viene correlata alla pazzia? La seconda domanda, invece, riguarda il fatto che se si dà per assodato che la trasgressione è solo transitoria, allora come si può affermare che i pazienti diventino devianti cronici? L’immagine del ruolo della pazzia, dunque, è interiorizzata nella socializzazione primaria e secondaria e riaffermata poi nelle interazioni sociali. Quando la devianza diventa un affare di pubblico dominio, lo stereotipo tradizionale di malattia mentale diventa il regista dell’azione, sia per coloro che reagiscono alla devianza, sia per il deviante stesso e nel momento in cui le reazioni si uniformano, la trasgressione del soggetto tende a cristallizzarsi nel tempo in maniera conforme alle attese, divenendo simile al comportamento di altri devianti categorizzati come malati di mente. Ed è proprio il concetto di stereotipi culturali che stabilizza la trasgressione residua generando l’omogeneità dei sintomi dei disturbi mentali. Così Glass, confrontando le osservazioni su un disturbo dell’età infantile, il “susto” che trae origine dalla paura, tra gli americani di origine messicana e quelli di origine anglosassone: qui il comportamento deviante in considerazione è simile a quello di una forma che pare abbia alta incidenza tra i bambini anglo-americani, ove non si verificano mai menomazioni permanenti. Probabilmente, attraverso indicazioni dei parenti, il bambino di origine messicana, che dapprima ha comportamenti uguali al corrispondente americano, apprende poi il ruolo del malato con serie conseguenze.
I disturbi mentali possono essere considerati al pari di ruoli sociali, ruoli che detengono lo status del pazzo nella struttura sociale, ergo, sono i processi sociali che stabilizzano i ruoli nel tempo e mantengono lo status quo di “matto”. Il completamento del processo di stabilizzazione della devianza residua avviene nel momento in cui è il soggetto ad accettare il ruolo di deviante come lo scheletro che sostiene la modalità di organizzazione del suo comportamento. I soggetti che hanno ricevuto il marchio di deviante, spesso possono ricavare vantaggi dall’interpretazione del ruolo di deviante stereotipato, normalmente i pazienti che mostrano una certa accettazione nell’interiorizzare questo ruolo, ricevono un compenso dagli psichiatri e dal personale ospedaliero; in altre parole, i pazienti che s’impegnano nel provare l’esistenza della loro malattia ricevono benefici da questo. Balint ha definito questo atteggiamento come “funzione apostolica” ossia il medico e il personale adibito alla cura si adoperano a fare sì che il paziente manifesti i sintomi della malattia che il medico ha formulato nella sua diagnosi. C’è un aspetto fondamentale che concerne proprio l’accettazione del ruolo di deviante ed è connesso all’immagine di se stessi che viene successivamente proiettata nell’azione. Nella società occidentale l’immagine dell’adulto “normale” è una persona dotata di auto-controllo, nel gergo forza di volontà e carattere forte. Un individuo che percepisce di possedere questi tratti, riesce a definirsi persona con auto-controllo, è molto più semplice, giacché ha in mente un’immagine del sé che resiste davanti agli eventi stressanti immaginari e reali. Laddove, invece, il soggetto concepisce un’immagine del sé priva di questa capacità di controllo delle proprie azioni, è plausibile che il soggetto non regga se sottoposto a un evento stressante. In quei ruoli laddove la cultura trasmette immagini che marcano la mancanza di auto-controllo, quest’ultima tenderà ad apparire più grave quando si è davanti ad uno stimolo o a evento stressante.
Le ripercussioni del movimento antipsichiatrico in Italia: Franco Basaglia e Giovanni Jervis
In Italia il movimento antipsichiatrico ha ispirato la legge 180 del 1978 che ha disposto la chiusura dei manicomi. Franco Basaglia è stato il promotore di questa legge, tant’è che quest’ultima viene ricordata con il suo nome. Le forme precedenti dell’antipsichiatria, in passato, hanno coinvolto solo in via marginale gli specialisti, ma a partire dagli anni ’60 il movimento si espande anche agli addetti ai lavori e coinvolge largamente anche l’Italia. Tal evoluzione è imputabile a diverse cause: negli anni ’50 nella terapia psichiatrica vengono introdotti nuovi psicofarmaci che, per la prima volta, sono in grado di agire con successo sui sintomi più gravi delle malattie mentali. Questo successo spalanca le porte a nuove possibilità di cura, che fino a quel momento sono rimaste solo nella fantasia e ciò comporta una trasformazione radicale alle modalità di cura, dal ruolo dei terapeuti fino all’organizzazione degli istituti deputati alla cura. Questa innovazione strutturale interviene in un momento in cui l’organizzazione psichiatrica non è pronta ad accoglierne la portata innovatrice, per numerose ragioni e generalmente in quasi tutti i Paesi, in Italia, ad esempio, non vanta un’adeguata considerazione. Giovanni Jervis, uno psichiatra di spicco del movimento antipsichiatrico italiano, afferma che il manicomio rappresenta un nucleo di potere rilevante per l’equilibrio della comunità locale, soprattutto come campo di clientelismo e serbatoio di voti. Coloro che dirigono queste istituzioni non hanno sempre avuto l’obiettivo principale della cura dei malati, in merito a ciò è significativo come molti manicomi ospitino un numero ampio di impiegati e dipendenti che svolgono compiti marginali, a volte, un numero che supera il personale medico e quello addetto ai compiti di custodia; questo può essere spiegato, in parte, con il clientelismo delle assunzioni. Il movimento denuncia l’arretratezza e la mancanza di un’assistenza psichiatrica valevole e pretende un mutamento radicale, ad esempio applicando delle categorie sociologiche nelle diagnosi. Lo stesso Jervis riprende i contributi dei sociologi in merito all’interpretazione della malattia mentale come giudizio di devianza, poiché violazioni di regole del vivere sociale: Pertanto la diagnosi psichiatrica non dovrebbe avere valenza scientifica, ma dovrebbe essere connessa a delle categorie socioculturali, che si muovono lungo un continuum di un modello sociale che etichetta gli individui dal deviante, al non normale, anormale e infine malato. Lo psichiatra dovrebbe, quindi,, farsi carico dei devianti, occuparsi del recupero e del reinserimento sociale e intervenire laddove non sia possibile assicurare la loro esclusione sulla base di regole ben stabilite. Muovendosi sul pensiero marxista, ove la malattia è un conflitto psichico, ripercussione di contraddizioni e tensioni sociali, ossia una storia di oppressione, Franco Basaglia asserisce che l’unica strada da percorrere è quella di conservare il legame del malato con la sua storia di sopraffazione e di violenze sottolineando da dove derivi questa vessazione. Tale violenza ha origine nella famiglia, nella socializzazione primaria, per poi proseguire nella scuola e sul lavoro, socializzazione secondaria; interessanti sono le parole di Jervis: “La famiglia nucleare – sostiene Jervis – è la macchina che costantemente fabbrica e riproduce forza-lavoro, sudditi consumatori, carne da cannone, strutture di ubbidienza al potere; e anche nuovi individui condizionati in modo tale da ricostituire nuove coppie stabili, procreare altri figli, ricreare altre famiglie, e così perpetuare il ciclo. […]. Gran parte dei disturbi mentali nascono proprio da queste contraddizioni; la famiglia contemporanea, nel momento stesso in cui comincia a non funzionare più, continua a fabbricare e condizionare dei bambini che le si rivolteranno contro, o che non riuscendo a rivoltarsi diventeranno nevrotici o psicotici; oppure cittadini conformisti, soddisfatti della loro mortale ubbidienza, mediocrità e normalità”.
Secondo Basaglia, il nuovo psichiatra sociale, lo psicoterapeuta, il sociologo industriale ecc. non sono che i nuovi gestori della violenza del potere, poiché risolvendo o almeno provando a lenire quei conflitti provocati dalle istituzioni, consentono il perdurare della violenza globale. L’auspicio è quello che lo psichiatra rifiuti il ruolo che gli viene assegnato, che evidenzi la genesi sociale dei disturbi mentali e si adoperi per eliminare quelle contraddizioni che attanagliano la società e assuma una posizione nodale per trasformare la società. Per Basaglia si deve continuare a corrodere, mediante la comunità terapeutica e nuove forme di contestazione, la dinamica di potere come fonte di regressione, malattia, e istituzionalizzazione dell’esclusione. All’antipsichiatria si deve dare merito di aver denunciato la mancanza di attenzione ai fattori sociali che sono eziologia di malattie mentali e sono rilevanti per il loro decorso; invece, la psichiatria ha ideologizzato il problema della malattia mentale, come ad esempio ha reso ammissibile (visione non concepibile secondo la dottrina antipsichiatrica) il concetto astratto di violenza come trauma all’origine dei disturbi psichici, o maltrattamenti, ma anche solo il ruolo svolto dai genitori nell’educazione. In questo senso la famiglia diviene “istituzione di violenza”. La legge n. 180 del 1978, nota come legge Basaglia, che ha disposto la chiusura dei manicomi, poggia la sua motivazione precipua sul fatto che la terapia psichiatrica classica non permette di progettare strutture adatte alla cura e alla riabilitazione di malati psichici, giacché è orientata a una forma di esclusione, di colpevolizzazione e di punizione del paziente. Se da una parte Basaglia ha sempre espresso una presa di posizione che si distacca dal movimento antipsichiatrico, in un’intervista ha persino asserito che non esiste e che esiste solo nella testa di quelle persone che hanno visto il potenziale dell’impiego del concetto di antipsichiatria dalla prospettiva ideologica, ma non pratica. Basaglia non si definisce un esponente di questo movimento ma un operatore che si è adoperato nel campo reale delle istituzioni per dare al soggetto sofferente una risposta alternativa alla vita condotta nel manicomio, spesso violenta e opprimente. Sostiene che la scienza è politica, perché è sempre legata a un movimento politico che si sviluppa e lo scopo è la creazione di una scienza nuova di riferimento, attenta ai bisogni dell’uomo che offra risposte individuali e non preformate.
Giovanni Jervis e la critica a Basaglia
Durante gli anni ’70 Giovanni Jervis, psichiatra italiano, collabora con Basaglia sullo sviluppo della spinta innovatrice sul trattamento dei malati di mente. Nel 2008 Jervis pubblica un libro dal titolo “La razionalità negata” in cui discute sulla cultura degli anni ’70 in merito alla psichiatria e all’antipsichiatria: l’autore parla della legge Basaglia, la definisce «vaga, poco chiara, generica» e si scaglia anche contro la denominazione data a quest’ultima, sostenendo che la paternità di questa legge è in realtà di un parlamentare democristiano, medico psichiatria, Bruno Orsini che ha, materialmente, formulato e promulgato quella celebre normativa che ha disposto la chiusura dei manicomi. Quest’ultimo ha incanalato le esigenze di cambiamento all’interno di una sintesi di quelle idee che hanno riscosso un largo consenso nell’opinione pubblica, Basaglia, dal canto suo, non è stato contento di questa legge, giacché critica fortemente questa accezione favorevole alla medicalizzazione e la sua considerazione in merito alla psichiatria non è di certo positiva giacché la indica come disciplina sbagliata e oppressiva in merito all’eccessiva impostazione medico-biologica che ha consentito i peggiori abusi. L’impostazione di Orsini al contrario è cruda e meno attenta ai bisogni dei soggetti, giacché considera i malati mentali come turbe all’ordine pubblico, pertanto malati e come tali vanno trattati. La critica che muove Jervis non è così semplice da spiegare, non è un anacronistico scontro di fronti che altrimenti si presterebbe a una lettura riduttiva; il libro è, piuttosto, un invito rivolto a coloro preposti alla cura dei malati mentali ma anche a politici e intellettuali, giacché si gioca su una questione che va aldilà della stessa legge Basaglia. L’impressione generale è una presa di distanza netta e radicale da un clima politico e da un substrato culturale che pone sempre qualcosa o qualcuno in antitesi con altro. Jervis asserisce che il maturare il giudizio negativo di quella stagione è correlato soprattutto al «gusto dell´astrattezza, la tendenza al trionfalismo e alla retorica, i settarismi, le contrapposizioni, gli schematismi, ignorando totalmente la realtà fattuale, il rigore dell´analisi, la previsione delle conseguenze di azioni o anche solo di parole… Una stagione incline alla violenza – non solo verbale, come sappiamo – intrisa anche di romanticherie vagamente spiritualiste, di confusi esistenzialismi, d´improbabili sperimentazioni, e molto più spesso di eccessi tutt’altro che innocui… Del resto, sappiamo anche come le follie collettive possano essere terribilmente normali». Secondo Jervis, Basaglia è stato un uomo ambizioso, che fino a quel momento ha avuto una vita professionale non brillante, ma ha desiderato trasformare in una nuova esperienza plot quel vecchio ospedale ai confini delle città, con mezzi scarsi, privo di appoggio delle amministrazioni locali e solo un paio di medici come supporto. Questa battaglia, Basaglia, l’ha vinta e nulla è stato più come prima e forse, asserisce Jervis, Basaglia è stato colto dal successo, dal mitizzare la sua personalità e dalle chimere ideologiche di quegli anni; alcuni suoi modi di fare non hanno giocato a suo favore, come ad esempio il rapporto autoritario con gli infermieri e a volte con gli stessi medici. Nel 1975 viene pubblicata l’opera di Jervis “Manuale critico di psichiatria” che a Basaglia non piace molto perché contrappone ai miti antipsichiatrici nozioni più concrete, spiegando come delirio, allucinazione e psicosi siano fenomeni tragicamente reali e per Basaglia questa è un’azione culturale rischiosa. Infine, Jervis critica in maniera molto palese il sociologo Foucault sostenendo che quest’ultimo ha eccessivamente generalizzato e analizzato pochissimo, con l’aggiunta del riconoscergli il demerito di aver idealizzato la devianza sociale. Se oggi la psichiatria continua a lasciare brandelli di stoffa qua e là, senza trovare una completa unità, se l’assistenza ai malati è ancora quella di un tempo, le cause sono ascrivibili alle derive della politica e della cultura, ai fallimenti delle istituzioni, alla diffusione di certe idee mitizzate antipsichiatriche e non a Franco Basaglia, che da questo punto di vista non ha colpe.
di Deborah Maddalena Bottino Criminologa AICIS
[Tratto dalla mia tesi di laurea “Imputabilità e vizio di mente nello specchio dell’evoluzione della scienza psichiatrica”]
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Fonti
Dal Moro Piero, “Psichiatria e potere”, intervista a Franco Basaglia, 1978
Howard S. Becker Outsiders. Saggi di sociologia della devianza, EGA-Edizioni Gruppo Abele; 1987
Jervis Giovanni, Manuale critico di psichiatria, 2a ed., Feltrinelli, Milano 1975
Nunnally J. Jr, et al Popular Conception of Mental Health, New York, 1961
Scheff Thomas J. Per infermità mentale – Una teoria sociale della follia Feltrinelli, Milano 1974 Introduzione alla lettura di Luigi Anepeta
Szasz Thomas Il mito della malattia mentale, Spirali, 2003
Ermanno Pavesi, L’antipsichiatria in I.D.I.S. – Istituto per la Dottrina e l’Informazione Sociale
AICIS