La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società”.

 

Furono queste le espressioni che Giovanni Falcone spese per rappresentare il complesso, pervasivo e totalizzante fenomeno delle mafie. Come è possibile notare da una attenta lettura, l’attualità delle sue parole rimane indiscussa ancora oggi nonostante, sul fronte investigativo, le forze dell’ordine stiano avviando dei protocolli d’intervento sempre più mirati a contrastarne le attività. Il tutto perché, quello delle mafie, è un settore in continua evoluzione nel quale difficilmente è possibile applicare un mezzo di contrasto efficace in qualsiasi situazione. Le motivazioni di questa affermazione sono principalmente legate alle diverse conformazioni, attività, capacità e legami fiduciari, attraverso  i quali è possibile delineare una specifica “struttura” di ogni associazione mafiosa presente nello Stato italiano e anche all’estero. Precisato questo importante quadro iniziale, in modo più generale è possibile definire la mafia come quell’organizzazione che tende ad avere i seguenti caratteri:

 

  • Controllo del territorio;
  • Mimetizzazione con la società civile;
  • Esecuzione di attività economiche apparentemente legali;
  • Contatti con partner strategici;
  • Eliminazione di tutti coloro che ne pregiudicano le attività.

 

Come il fenomeno terroristico, quello mafioso, presenta una forte resilienza alle attività di contrasto promosse dalle forze dell’ordine dimostrando, con il passare degli anni, quanto esso sia imprevedibile, difficilmente penetrabile e diffuso. Un esempio è sicuramente la N’drangheta calabrese che, in quanto organizzazione più pervasiva e pericolosa d’Italia, presenta oltre a un notevole radicamento nei territori più celati della Calabria e all’estero, anche una struttura coesa e ancorata a vincoli di parentela difficilmente accessibile da parte degli agenti “undercover”. È così garantito, un controllo territoriale e una devozione caratterizzati dal cosiddetto “vincolo generazionale”. In questo senso, quello delle mafia calabrese e non solo, è ormai “uno stile di vita” che viene trasmesso principalmente da generazione in generazione ovvero diffuso attraverso quel processo di apprendimento che può essere sintetizzato dalla teoria “dell’associazionismo differenziale” di Edwin Sutherland: i giovani aderirebbero non solo ai precetti negativi della famiglia con la quale interagiscono, ma ne farebbero degli stessi un’espressione dei loro bisogni relazionali e d’identità. Teoria questa che può essere estesa anche alla mafia sicilianaCosa Nostra” che, a differenza di quella calabrese, presenta una struttura più verticistica e sistemica. In tal senso è verosimile anche notare come le due organizzazioni mafiose presentino delle differenze psico-antropologiche e sociali: quella siciliana, essendo più radicata sul suo territorio, sfrutterebbe molto più le basi antropologiche e culturali per affascinare i propri adepti a differenza di quella calabrese che, in maniera più invisibile, predilige, oltre ai “caratteri identitari”, dei modelli più adatti al settore internazionale.     

Parallelamente ai citati vincoli di parentela, in continuità all’analisi che si sta svolgendo sulle possibili forme di reclutamento, è doveroso soffermarsi su un altro complesso fattore d’attrazione in via sempre più di sviluppo: quel fascino o interesse che la stessa organizzazione emanerebbe in quei soggetti che non apparterebbero al “tessuto familiare” precedentemente esposto. Nello specifico, quel gruppo di persone, di solito dai 18 ai 40 anni, che per diverse motivazioni sociali, psicologiche o economiche, deciderebbero di farne parte.

 

Mettendo a fattore comune lo studio delle diverse organizzazioni criminali, sia esse di matrice nazionale che straniera, emerge come la volontà delle giovani generazioni sia quella di evolversi secondo schemi e modalità comunque assimilabili: si percepisce la volontà di affrancarsi dai vecchi boss, un’ambizione di riconoscimento e di progressione nelle file dell’organizzazione. Preoccupante è l’uso indiscriminato della violenza da parte loro”.[1]

 

In questa macro-area di soggetti, non deve essere sottovalutata la presenza di un campo ancora poco studiato, ossia l’esistenza di minori tra le fila dei reclutati: baby boss violenti e armati pronti a svolgere qualsiasi attività criminali a prescindere dalla giovane età che portano.

Questo fenomeno, ancora più difficile da contenere, è sempre più in via di sviluppo: reclutati in genere dalle mafie per compiere i primi atti intimidatori, quello che si propone alle giovanissime generazioni è un vero e proprio iter addestrativo atto a insegnare delle azioni criminali sempre più pericolose come l’estorsione, lo spaccio di droga per poi giungere fino alle commissione di vere e proprie esecuzioni. La domanda, in questi casi, potrebbe sorgere spontanea: Come mai si è disposti a fare ciò? Quella che possiede la mafia è “un’arma senziente” in grado di fare breccia sulle esigenze dei suoi reclutati ovvero capace di offrire valide soluzioni alternative alle condizioni precarie nelle quali certe persone vivono. Ma prima di affrontare ciò, bisogna soffermarsi sulle principali “radici motivazionali” che si celano dietro la scelta di farne parte.                  

Iniziando da quelle biologiche e sociali, nelle quali rientrerebbero tutti gli aspetti relazionali e personali, si può sostenere che anche l’ambiente dove si nasce e si vive può essere un fattore determinante per lo svilupparsi di azioni criminali e mafiose. Come la “Broken Windows Theory” ci spiega un luogo contraddistinto da elementi di inciviltà come il vandalismo e i danneggiamenti fisici (da qui la metafora dei vetri rotti), condizionano la percezione delle persone che ne fanno parte ossia ne definiscono il loro universo simbolico attraverso l’idea che non vi sia il bisogno di rispettare le leggi e che a nessuno interessi. In altri termini, piccoli segnali di degrado possono promuovere inconsciamente la diffusione di azioni criminali. A tal proposito è importante sottolineare che nonostante il luogo degradato non rappresenti oggettivamente una condizione più pericolosa di uno pulito e ordinato, esso viene percepito “privo di regole” da parte dei residenti del posto. Non per niente, a un occhio esterno, un quartiere particolarmente cupo e poco curato genera paura e senso di angoscia.

Ritornando al discorso delle mafie, il loro fascino attira quelle persone che, condizionate dall’ambiente e dai rapporti sociali sbagliati, hanno vissuto la loro vita commettendo delle attività criminali. A conferma di ciò i precedenti penali e uno stile di vita violento, rientrano nei molti profili di quei mafiosi, di giovane età o meno, condannati dalla magistratura. In tal senso, a differenza di quello che si crede, non si deve commettere l’errore di stigmatizzare gli stessi come dei soggetti dal basso livello culturale. Livello di istruzione e criminalità sono due assiomi che vanno analizzati separatamente di volta in volta, in base alle situazioni nella quali ci si trova. Le mafie possiedono tantissimi soggetti criminali qualificati al loro interno. Se così non fosse, sarebbe più semplice intuirne gli schemi e le strutture. Per quanto riguarda gli aspetti psicologici sono molte le considerazioni che possono essere fatte. L’idea di far parte della sfera mafiosa potrebbe nascere da una profonda crisi esistenziale per la quale il soggetto non riuscirebbe a identificarsi con lo stile di vita, le persone e il luogo dove vive. Egli potrebbe sentire l’esigenza di seguire un codice di comportamento preciso cioè quel tessuto di regole che le mafie impongono di rispettare. A questo fattore più introspettivo, potrebbe anche legarsi all’odio che  lo stesso potrebbe manifestare verso la legge e le forze di polizia: si pensi alle forme di ribellione mirate e violente che spesso vengono indirizzate alle istituzioni. In aggiunta, e non per questo meno importante, un peso notevole per la conversione all’ideologia mafiosa può avere la “teoria dell’etichettamento” ovvero quel condizionamento sociale o di pensiero di gruppo attraverso il quale lo stigmatizzato “criminale” di un singolo reato si auto-percepisce come tale diventando, così facendo, un delinquente cronico. Infine un altro legame, a mio avviso poco studiato, è il rapporto tra la psichiatria e la mafia. Si può essere spinti a far parte di questa “cultura mafiosa” da spiccati tratti della personalità che possono acutizzarsi in veri e propri disturbi (borderline, antisociale di personalità, narcisistico ed ecc…) in psicopatia (contraddistinta dall’assenza di empatia) oppure in deliri in essi contenuti (quello di onnipotenza in primis). Decidere di far parte di una realtà per la quale si deve essere disposti anche ad uccidere in un certo modo presuppone, in buona misura, la predisposizione o lo sviluppo di disturbi e non solo, sopra esposti. Per quanto invece riguarda la restante parte dei reclutati privi di questi, è possibile asserire che spesso si viene affascinati dal mondo mafioso senza essere realmente consapevoli di quelli che possano essere i prezzi da pagare in termini di servizi da offrire.

In conclusione, per affrontare le principali motivazioni che si celano dietro la convinzione di legarsi a una causa mafiosa, è doveroso soffermarsi sugli aspetti puramente economici. Soprattutto nel meridione, i salari minimi offerti dalle organizzazioni mafiose generano quei legami di dipendenza utili al fabbisogno primario della persona. In altre parole, in mancanza di alternative fonti di guadagno, a causa di gravi crisi economiche nel mercato del lavoro oppure dall’indisponibilità delle aziende ad assumere quelle persone etichettate come criminali, le risorse economiche distribuite dalle mafie rappresentano quei salari sicuri dai quali poter soddisfare i propri bisogni. A queste esigenze, non mancano episodi particolari attraverso i quali è possibile trarre motivazioni diverse dalla semplice logica della sopravvivenza: come quelle di imprenditori e liberi professionisti dirette all’arricchimento personale o obbligate dall’organizzazione mafiosa. Quest’ultima, difatti, sa benissimo quali tasselli toccare per ottenere i propri obiettivi definendo, di volta in volta, piani di reclutamento tesi a soddisfare le esigenze degli specifici targets.

Cominciando dall’inizio, quello che viene fatto è un severo screening delle richieste ricevute o delle persone che si vogliono reclutare.  Si deve pensare che il rischio di spionaggio è così dannoso all’organizzazione da attuare paranoiche fasi selettive contraddistinte da pedinamenti, test, interrogatori e pesanti messe alla prova atte a testare la lealtà del soggetto che si vuole inserire. Una volta superate queste iniziali fasi, si attuano le strategie principali della manipolazione: controllo rigido della sua vita, limitazione del pensiero, ridefinizione e controllo del linguaggio, l’uso del pensiero di gruppo, intimidazioni e l’isolamento.

Nello specifico, ciò che vengono per esempio stabiliti al di fuori delle loro riunioni sono dei veri e propri codici (che strutturano il pensiero e il comportamento di chi li mette in pratica) dai quali è possibile tra i membri comunicare e agire senza destare attenzione. 

Nella maggior parte dei casi si fa leva sulla fragile identità del soggetto e sulla sua bassa fiducia nei confronti della legge e delle istituzioni, proponendo una struttura più soddisfacente alle sue esigenze. Spesso la persona viene convinta di essere speciale, unica, in quanto scelta per far parte di una classe dirigente occulta e parallela a quella dello Stato. In altre parole, la logica dell’in group, con le sue regole gerarchiche e comportamentali, deve spazzare via tutto il resto. Esiste solo un modo per fare “carriera”: seguire gli ordini dei leader ai quali sono affidati. Nel caso per esempio di quelle persone che hanno un passato violento dedito a forme di estorsione, danneggiamenti, rapine ed ecc…, si promette un contesto adrenalinico in  grado di elevare la  loro posizione sociale. Per quanto riguarda invece tutti coloro che sono spinti da motivazioni più introspettive, ciò che si propone è una vera e propria ideologia o cultura mafiosa in grado di legiferare su tutti gli aspetti della loro vita: dall’abbigliamento al comportamento. A proposito di quest’ultimo, si inculca fin dall’inizio l’atto del silenzio e dell’omertà.

In estrema sintesi quindi, la procedura di affiliazione prevede più o meno tre fasi essenziali:

 

  • L’avvicinamento;
  • La persuasione;
  • L’affidamento della risorsa a una specifica fazione.

 

 Lo scopo di questo iter non è solo quello di ottenere agenti in grado di portare avanti le attività criminali; ma anche quello di generare un forte senso di devozione e responsabilità ai propri operanti. Difatti, come ogni sistema manipolativo è inutile dire che la mafia, più delle altre, risulta essere un cappio al collo dal quale è difficile liberarsene: il senso di colpa misto alle minacce che si subiscono, sono determinanti per mantenerne salda la struttura. Spesso viene inculcata l’idea che la morte rappresenti l’unico modo per allontanarsi dall’organizzazione.

In generale i leader sanno benissimo come mantenere flebile lo spirito critico dei propri affiliati, quella reale percezione che hanno di se stessi, attraverso un continuo bombardamento di azioni fisiche e mentali tese a sviluppare un distorto senso di inferiorità. Nel caso di Cosa Nostra e non solo, la strumentalizzazione dei codici culturali serve a sottomettere, diffondere consenso e giustificare le azioni degli appartenenti al gruppo.      

Riassumendo, riprendendo le parole utilizzate all’inizio di questo articolo, è possibile affermare che quello delle mafie è proprio un fenomeno complesso, pervasivo e totalizzante. L’ideologia mafiosa, promossa anche attraverso i social, sembra essere diventata la nuova gallina dalle uova d’oro dei giorni nostri. Secondo il report della DIA del 2018l’esatta sovrapposizione tra le regioni che presentano il maggior numero di giovani/ arrestati per mafia e quelle con il più alto tasso di giovani disoccupati, conferma che la crisi economica in atto, che esplica i suoi maggiori effetti nelle regioni del sud Italia, rischia di essere proprio la concausa o la causa determinante del reclutamento delle giovani leve nelle strutture mafiose[2].

Una osservazione questa dal grave peso regionale che, in virtù della crisi che soprattutto il sud d’Italia sta vivendo, dovrebbe far riflettere seriamente gli esperti del settore se davvero si vogliono ridurre i fattori di rischio legati a questa causa. Detto ciò, ritornando alle mafie e alla loro sistematicità, è assolutamente necessario agire secondo un “modello olistico” ossia quell’insieme di azioni che, oltre a tenere in considerazione la deterrenza delle forze dell’ordine, devono prevedere un diffuso intervento da parte di altri sistemi come la scuola, la famiglia, gli uffici di collocamento e la chiesa. A differenza di quello che si può pensare, il ruolo di quest’ultime è importante tanto quanto l’azione di contrasto da parte delle forze dell’ordine. Vi è la necessita di lavorare ancora di più sui bisogni che spingerebbero le giovani menti ad avvicinarsi al mondo delle mafie. Una soluzione potrebbe essere quella di offrire dei servizi sempre più adatti alle esigenze dei cittadini, soprattutto nel Sud d’Italia.   

In accordo a quello che il dispositivo di sicurezza di Michel Foucault ci insegna, non bisogna solo imporre delle leggi dall’alto ma anche determinare un modello più interno alla popolazione: mediante dei progetti lungimiranti in grado di, nel caso dei giovani  più tentati dal fascino delle mafie, rafforzare il loro senso di appartenenza e patriottismo allo Stato Italiano.     

 

Fonti bibliografiche usate:

 

– Maurizio Catino, Quaderni di sociologia, “La mafia come fenomeno organizzativo”. 

-Sicurezza e giustizia numero I/MMXIX.

Maugeri Dario Pietro, Diritto.it, “Sociologia della mafia: paradigmi incerti visti da dentro”.

-https://www.quirinale.it/1106.

http://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/semestrali/sem/2018/1sem2018.pdf

 

[1] Giovanni Nazzaro, “Relazione DIA 2018: le organizzazioni criminali attraggono le giovani generazioni“, Giustizia e Sicurezza, Numero I/ MMXIX.

[2] Giovanni Nazzaro, “Relazione DIA 2018: le organizzazioni criminali attraggono le giovani generazioni“, Giustizia e Sicurezza, Numero I/ MMXIX.