Il racket delle stanze è uno dei mille volti del degrado e dell’insicurezza legati all’immigrazione non controllata. E a farne le spese, questa volta è un’innocente bambina, la piccola Kataleya, scomparsa lo scorso 10 giugno l’ex hotel Astor di Firenze, abusivamente occupato. In quell’ex albergo si consumava uno spietato racket delle stanze. A capo di questa ‘impresa’ criminale, secondo le indagini, c’erano tale Carlos Martin De La Colina Palomino, 37 anni (detto Carlos) – conosciuto come il ’duegno’ ovvero il proprietario dell’Astor’ –  e Angenis Abel Alvarez Vasquez, ’Dominique’, 29 anni, lo zio di Kata e l’ultimo a vedere la bambina nell’ex albergo. I due peruviani ieri sono stati arrestati, insieme ad altri due connazionali con accuse – a vario titolo – di tentato omicidio, lesioni gravi, estorsione, tentata estorsione e rapina. Perquisiti – come terzi non indagati – anche i genitori e altri familiari della piccola, ai quali sono stati sequestrati i cellulari e computer.

Ad indagare sul sequestro della piccola Kataleya è la Direzione distrettuale antimafia. La pista investigativa principale è quella del sequestro di persona a scopo minatorio o ritorsivo per controllare il racket degli affitti della struttura. I genitori della bambina, sfortunatamente per lei, apparterrebbero ad una delle fazioni contrapposte per il controllo dell’albergo.

Con gli arresti di ieri si ipotizza lo zio della bambina, non sarebbe vittima del racket, ma sarebbe tra i capi di uno dei gruppi rivali. E probabilmente proprio seguendo il filo delle vicende di questa guerra delle stanze che sarà possibile trovare la chiave di volta del mistero.

Il costo per l’affitto per una camera all’interno dell’edificio andrebbe dagli 800 euro senza bagno fino ai 1.500 euro se dotato dei servizi. 

LA TESTIMONIANZA

Poco dopo la scomparsa una donna di origine romena che vive nell’ex albergo Astor, parlando con i giornalisti, aveva affermato che non si tratterebbe di una questione di soldi bensì di controllo degli affitti all’interno dell’ex albergo “Hanno scritto che c’entrano i romeni, ma non c’entrano nulla, è tutto tra loro. I peruviani lo sanno dov’è la bambina. Non lo sappiamo noi romeni, i bambini giocano qua fuori, perché hanno preso la loro bambina e non una nostra? È perché dieci giorni fa si sono picchiati” ha continuato la donna, ricordando l’episodio del 28 maggio, quando dopo un’aggressione un sudamericano è precipitato in strada. “Gli hanno dato una botta con un ferro in testa e per la paura si è buttato di sotto e dopo una settimana è sparita la bambina. Si sono picchiati per le stanze. La famiglia lo sa chi ha preso la bambina e l’hanno detto alla polizia. Noi siamo stufi di questa situazione”.

In effetti lo scorso 28 maggio, meno di due settimane prima della scomparsa della bambina peruviana, un cittadino ecuadoregno si getta da una finestra al terzo piano dell’ex albergo fiorentino (riuscendo a salvarsi quasi per miracolo) per scappare alle violenze di altri occupanti, Carlos e Abel, che pretendevano più soldi per l’affitto della stanza. Evento che, agli atti, è raccontato anche dalla drammatica telefonata al 112 della vittima del tentato omicidio, poco prima di gettarsi dalla finestra: «Mi vogliono ammazzare in via Maragliano 101 Firenze … mi vogliono ammazzare venite subito».

UN FENOMENO CHE SI MANIFESTA NELLE GRANDI CITTA’

Probabilmente, se a farne le spese non fosse stata la piccola Kataleya e se non ci fosse stato il pestaggio del sudamericano volato dalla finestra, le cose all’ex hotel Astor di Firenze sarebbero continuate criminosamente indisturbate.

Non è l’unico episodio che denuncia il fenomeno del racket-alloggi nelle grandi città. Ricordiamo, per esempio il caso del “Palazzo Giallo” l’immobile di via Curtatone a Roma – a poca distanza dalla stazione Termini – ex sede della Federconsorzi, abitato dall’ottobre 2013 da centinaia di profughi provenienti soprattutto dal Corno d’Africa, sgombrato con la forza ad agosto del 2017 di seguito ad un decreto del tribunale del 1° dicembre 2015. Le indagini, dopo sgombro, disvelarono una sconvolgente realtà. Per sedersi su alcune poltrone, eritrei e somali erano costretti a pagare due euro per tre ore, come stabiliva un tariffario in più lingue. Già da un primo sopralluogo gli inquirenti trovarono riscontri relativi all’esistenza di un gruppo di gestione che lucrava sui servizi offerti agli immigrati: alcuni tipicamente alberghieri, come testimoniavano quelle poltrone a nolo e i turni alla reception, dove erano in funzione sei computer ai quali si alternavano alcuni operatori, tutti rigorosamente stranieri.